Amodio Salcesi
Nel 1933 Amodio Salcesi pubblica un saggio dal titolo Poesia popolare e poesia d’arte a Foggia. Nel libretto, oltre ad un piccolo glossario compilato dallo stesso Salcesi, sono riportate alcune “strofette giocose, aneddotiche e superstiziose” della tradizione popolare foggiana “adottando il sistema di trascrizione del Bellizzi, il quale tenne una via di mezzo tra la forma etimologica e quella strettamente fonica”. Sono riportate, inoltre, alcune cantilene trascritte da F. Bellizzi, una “poesiola” attribuita a Luigi Rispoli, un sonetto di Elisa Giordano e frammenti di composizioni poetiche dello stesso Bellizzi. Per quanto riguarda il tema della scrittura del dialetto foggiano mi sembra opportuno riportare integralmente una nota molto interessante: “Il Bellizzi, per esempio, a chi dava l’ostracismo all’e muta, consigliava di leggere L’E, E, E... di Giuseppe Rizzi, « dopo di che da qualunque parte vi volgerete, non troverete che l’e muta, l’e muta, l’e muta, l’inevitabile spettro persecutore dei dialettisti e-mutofobi ». Così, per il dittongamento di uo egli adoperava il simbolo ûo, ossia l’u con l’accento circonflesso e l’o atono (in corsivo), e scriveva « sûonne » e non «sunn’», «dûorme» e non « durm’ »; per indicare il suono cupo dell’a, simile a quello dell’eu francese, usava la dieresi sull’a, ecc. il Bellizzi, insomma, cercò di attenersi alle norme per la compilazione dei vocabolari dialettali, dettate da G. I. Ascoli, L. Morandi e F. D’Ovidio, i quali raccomandavano, tra l’altro, di rappresentare i suoni dialettali « con espedienti facili e piani, non troppo inusitati, nè contrari alle consuetudini ortografiche, nonchè della lingua, ma dello stesso dialetto, se questo abbia avuto una cultura e possegga una non irragionevole tradizione ortografica », insistendo sul fatto di « servirsi il più possibile delle lettere e dei nessi alfabetici della lingua letteraria, senza mutarne il significato e il valore »”. Esaminando i termini riportati nel glossario del Salcesi si nota che la e muta, sia all’interno che in finale di parola, viene resa con la vocale e non accentata (caravone [karavónə] carbone; mennuzze [mənnùzzə] mammella). La Vocale centrale semiaperta non arrotondata [ɜ] viene resa con una ä con dieresi (ammanecäte [ammanəkǻtə] ammanigliato, avetäre [avətǻrə] altare). La i semiconsonante viene resa in linea di massima con la i lunga / j / (eje [èi̯ə] è; ‘mbuntäje [mbundǻi̯ə] rimase immobile). Tutti gli infiniti tronchi presentano la vocale finale accentata seguita dall’apostrofo (arrepezzà’ [arrəpəzzà] rattoppare; rumanì’ [rumanì] rimanere). Le parole accentate presentano solo l’accento grave
POESIA POPOLARE E POESIA D'ARTE A FOGGIA
Contributo allo studio delle Tradizioni Popolari di Capitanata
AVVERTENZA
Questo scritto, di carattere più che altro informativo, pubblicato la prima volta sul giornale « Il Popolo Nuovo » A. II, n. 22, (Foggia, 30-V-1932-X), e qui ristampato con aggiunta, note e glossario, non ha certo la pretesa di essere un compiuto saggio sull'argomento; ma vuole apportare un modestissimo contributo agli studi delle nostre tradizioni popolari con tanto ardore risorti.
Milano, aprile 1933-XI.
A. S.
Arti Grafiche UBEZZI & DONES - MILANO - Via B. Spinoza, 4 – 1933 XI.
Fu agitata, molto tempo fa, in un periodico letterario foggiano (1), la questione se il nostro dialetto avesse una letteratura e se potesse elevarsi ad onor di letteratura; e ne nacque una polemica assai vivace ed interessante, sia per la perizia dei contendenti, cultori di studi filologici e conoscitori dell'etnografia tradizionale e della letteratura popolare nostra; sia per l'importanza dell'argomento, che, di quei tempi, appassio-nava.
Esso infatti, metteva capo a tutto il movimento folcloristico italiano promosso e incoraggiato da insigni maestri, quali il Carducci, il Martini, il Comparetti, il D'Ancona, l'Ascoli, e, più direttamente, da Giuseppe Pitrè col suo tipico « Archivio per lo studio delle tradizioni popolari » (1882-1908) e da Angelo De Gubernatis con la « Rivista delle tradizioni popolari italiane » (1893-1894).
L'argomento della polemica, in voga quando si voleva ricomporre la demopsicologia dell'Italia e ritessere la grande leggenda italiana, è di moda ancor oggi che si riavverte il bisogno di avvicinarsi all'anima popolare, di ascoltarne le voci; di dar vivo risalto alle varie fisonomie regionali, che si collegano in ideale unità e formano, o tendono a formare, lo spirito della Nazione (2).
Il primo a sollevare la questione, cui accennavamo poc'anzi, fu un anonimo che in un articolo dal titolo « Foggia e la questione dialettale », dopo alcune considerazioni generali sulla poesia popolare e d'arte dei vari paesi d'Italia, si domandava se anche noi potessimo asserire di possedere una letteratura dialettale, e notava come a noi non pure mancassero le composizioni caratteristiche e le forti creazioni da porre accanto a quelle di poeti dialettali di primo e di second'ordine; ma, ciò ch'è più, nessuno avesse mai tentato una paziente ed accurata compilazione del nostro folclore, che solo avrebbe potuto costituire la base di un lavoro storico, filologico, letterario.
Censurava poi aspramente alcune composizioni del nostro Bellizzi, ch'egli giudicava « svisatore del carattere del nostro dialetto, ricco di bellezze e d'immagini poetiche », e conchiudeva affermando che, soltanto dopo un paziente ed accurato lavoro preparatorio « in raccogliere le fiabe, le novelle, le voci, le frasi, i proverbi, le sentenze, ed in istudiare i nostri usi e costumi popolari e le loro storie attraverso le invasioni di popoli più o meno barbari », era possibile porre mano alle composizioni dialettali letterarie.
Questi, per sommi capi, gli argomenti principali degli articoli del signor X, corredati da un'ampia esposizione folclorica, utilizzabile, ma poco opportuna, in una questione meramente dialettale; confutati da Filippo Bellizzi, (1865-1917), folcloristica, dialettologo e cultore della Musa vernacola foggiana.
Il quale, pur riconoscendo la necessità di un diligente studio delle nostre tradizioni popolari, non riteneva che la mancanza di questa preparazione costituisse una pregiudiziale contro i nostri primi tentativi poetici in vernacolo; che, se rispecchiano I'anima del popolo e l'indole del dialetto, possono bene costituire un terreno preparatorio ed iniziare una letteratura dialettale.
La preparazione folclorica, egli aggiungeva, potrebbe « fare da complemento », « servire di sostrato », ma non è indispensabile. Il poeta dialettale può anche permettersi d’ignorare il folclore paesano e scrivere tuttavia una bella composizione, pur che cerchi di conformarsi alle aspirazioni, ai bisogni, alle tendenze, ai sentimenti del popolo.
Cosicchè, non è giusto, conchiudeva il Bellizzi, negar l'esistenza della nostra letteratura popolare, chè, se a noi manca la raccolta del nostro folclore, « non manca però una letteratura quantunque rozza e di essa non ci restino che ruderi, ad eccezione di molte cose che vivono sempre fresche sulle labbra del popolo» e « se non abbiamo una letteratura popolare scritta ed un poeta nostro popolare, possiamo benissimo pigliare un posticino tra quei paesi che vantano una letteratura semplicemente tradizionale » (3).
In verità, l'anonimo non ne disconosceva recisamente l'esistenza, ma avrebbe potuto essere più chiaro e non generar confusione tra poesia popolare e poesia d'arte, o colta, o letteraria, che dir si voglia.
C'è, dunque, una letteratura popolare nostra, sia pure frammentaria e rozza; e nei pochi avanzi di quella che tramonta e in ciò che rimane ancor vivo, troviamo impresso il carattere del nostro Popolo.
Il quale, formato prevalentemente di pastori e d'agricoltori non ebbe una parte attiva nel succedersi dei grandi drammi nazionali; e visse di riflessi. Abituato al quieto vivere, alla rassegnazione, a contentarsi di poco, incapace di grandi e durevoli entusiasmi; è piuttosto scettico; qualche volta cinico, però sempre arguto: di un'arguzia semplice e bonaria, di rado scollacciata e salace, o degenerante nella celia sciocca e volgare (4).
Sarebbe talvolta attraente studiare l'origine, gli spiriti e le forme della nostra poesia popolare; cogliere nella novella, nel canto, nella sentenza, nell'arguzia, lo spirito multiforme del nostro popolo; riconoscere, attraverso un sagace lavoro di comparazione, quali caratteri la nostra letteratura popolare ha comuni con le letterature di regioni e paesi vicini e lontani; ma non abbiamo una documentazione molto vasta (5). Il nostro proposito è assai più modesto. Valendoci dello scarso materiale a stampa, verremo esaminando alcuni più espressivi saggi di poesia popolare e d'arte, dai quali traspare talvolta il tono e il temperamento sentimentale del popolo.
(1) Cfr. L'Aurora, A. II, n. 16 e segg. (Foggia, 1894).
(2) A ciò mirano soprattutto le nostre belle riviste di folclore, tra cui notevoli: « Lares » Organo del Comitato Nazionale per le Trad. Pop.; « Il folklore italiano », diretto da Raffaele Corso; « Pallante » studi di filologia e folklore diretti da P. S. Leicht, F. Neri, E. L. Suttina.
(3) Cfr. F. Bellizzi - Post fata resurgo! p. 11 e passim (Foggia, Tip. Pascarelli, 1894).
(4) Con ciò non si esclude ch'esso abbia tratti di bontà e di tenerezza, di generosità e di fierezza; ma i caratteri distintivi sono quelli anzidetti. Anche il prof. La Sorsa, nella dotta introduzione alla sua raccolta dei canti d'amore del popolo pugliese (p. 42), si attiene quasi letteralmente a questo giudizio, estendendolo a tutto il popolo di Capitanata. Qualche riflesso della vivacità e dell'arguzia popolare è dato scorgere nelle strofette giocose, aneddotiche e superstiziose ed anche nella cosiddetta versificazione gnomica, parenetica e satirica. Tali strofette non sono; in realtà, che «bruttezze, goffaggini, freddure, prodotti meccanici », ossia la negazione della poesia; tuttavia hanno un interesse folcloristico. Ecco alcuni esempi:
a) Chiova... chiove!
E ttatà è jiute fore;
E' jiute senza cappe:
E Mmadonne mantîene l'acque!
b) Jocca... jocche!
E lu päne de Fijocche,
E lu grän'a ccin-carrine,
e lu pûorch' int' a cucine!
c) Povra fatica mije
(sentenzia lo scarafaggio)
Jettät'a lu vîente:
Teneve'na pallotte,
E mmò nen tenghe cchiù nnîente!
d) Pasqua Befanije:
Tutt'i feste pigghiene vije.
Risponne sant'Antûone:
- Stäch' ije qua: masker’e sûone!
e) 'A Cannelore:
E la vernät'è fôre!
Nen è fore la vernäte,
Si nen ven' 'a Nnunziäte;
E pe ' ghesse cchiù secure,
Aspîette quanne caln'i meteture.
f) Mo vene Natäle,
Nen tenime denäre:
Facime lu lîette
E ci jäm'a curcà'!
g) 'A notte de Natäle,
'A festa prencepäle,
Cu vôv'e l'asenîelle,
San Gesepp' 'u vecchiarîelle,
San Geseppe jeve sunanne,
Tutt' i pecure jeven'abballanne:
Lulè lulè lulè lalù...
Nu poche de päne,
Nen ce venghe cchiù !
h) Titte ... titte ...
Tè' lu stûorte (il dente)
E ddamm' 'u dritte,
E ddammille tanta forte,
Sennò te menghe
'Na varre de porte!
i) Frisk'a rrecchia manche:
Core franche!
Frisk'a rrecchia ritte:
Core afflitte!
l) Sam Pantlijone mije de Rome,
Vîene 'n- zûonn' 'n-vesione;
P'la tuja puretà,
P'la tuja santetà,
Damme tre numbre pe' ccaretà!
m) 'N-te 'ntreganne,
'N -te 'mpeccianne,
'M-pacenne maj bbene,
Ca 'n-t'attocche mäle!
n) Vocia sanda, vocia bbône:
(la campana)
Foca 'n-gann'a chi la sône!
Vocia sanda, vocia pussentc:
Foca 'n-gann'a chi la sente!
Vocia sanda, vocia flice:
Pô' esse sande chi lu dice!
Esempi di versificazione satirica sono questi due brevi frammenti: l'uno fa parte della cosiddetta Satira ddla Matrigna:
o) Mäje vev'e mmäje magne,
Lu marit'assäje sparagne;
Duje tumele de gräne
Ne l'avastn' a settemäne!;
l'altro, alquanto licenzioso e plebeo, allude a certe ragazze che per apparire più belle si truccano in vari modi;
p) Ma po' l'ûomne so' cchiù ddritte,
Nen ze fanne 'mpapucchià' :
Calne suhbt'i mäne 'm-bîette,
ecc... ecc ...
(5) Nessuno infatti si è accinto ad un'organica raccolta del nostro folclore; e chi, avendone la necessaria preparazione storica e filologica, aveva intrapreso, con rigoroso, metodo un tale lavoro passò di vita proprio quando si riprometteva di riordinare e pubblicare tutto il copioso materiale, frutto delle sue diligenti e nobili fatiche. Fu il Bellizzi, presso di noi, a seguire l'ammonimento del Carducci ed a cogliere di su la bocca del popolo nostro « la parola e il motto, la imagine, il fantasma ch'è testimonianza della storia di tanti secoli » e « i canti e i proverbi e le novelle e le tradizioni e le leggende ». Qualche cosa di questo vasto materiale, di cui pochi suppongono l'esistenza, venne pubblicato sulla «Rivista delle tradizioni popolari italiane»; ad esempio: le Credenze e superstizioni pugliesi, (A. I.o Fasc. 6; pp. 458-459); la novellina su S. Antonio (A. I. Fasc. 9.; pp. 721-722); ecc.; di altri scritti: Una leggenda di Pietro Abelardo; Il patto col diavolo; Le ariette foggiane sui mesi dell'anno, ecc., la Rivista potè dare semplice comunicazione, perchè, dopo circa due anni di vita, interruppe le sue pubblicazioni. Ma la più parte di quella cospicua raccolta demopsicologica è rimasta inutilizzata e si ha forte ragione di dubitare che ci sia stata conservata nella sua integrità . La raccolta dovrebbe comprendere, oltre ad un buon numero di canti, nenie, strofette, indovinelli, giochi, leggende, fiabe, novelline, ed alla descrizione dei nostri usi e costumi, credenze e superstizioni; più di tremila frasi ed oltre duemila proverbi, senza contare i semplici vocaboli per la compilazione di un lessico dialettale, e il primo tentativo di codificazione della fonologia e morfologia del dialetto foggiano. (Cfr. Bellizzi, op. cit., p. 18).
Anzi che sciupar tempo in mere ricerche erudite, cercando di ... svelare aspetti poco conosciuti di storia foggiana, e senza infondere in quelle aride rievocazioni un soffio di calore e di vita, sarebbe più opportuno e proficuo ricercare e ricomporre criticamente tutto quel vasto materiale folclorico; non certo, con le teorie e i metodi arbitrari, di che danno prova alcuni incompetenti raccoglitori, i quali si ritengono dispensati dai più elementari obblighi di cultura; ma cercando di apportare un utile contributo per la scienza e per la storia.
* * *
Quanta semplicità e schiettezza nelle «ninne-nanne» e quanta dolcezza nel loro ritmo monotono: scenda dal cielo San Giorgio sul bianco cavallo sellato e bardato d'oro e d'argento e si appresti ad addormentare la creaturina che piange; o valga l'esempio di San Nicola che, piccolo, non chiedeva suggere alla poppa materna, nè voleva canti che gli conciliassero il sonno, ma vuleve carte, calamär 'e ppenne, patrennûost' e rrazzijune; o l'immagine della pecorella tra le fauci del lupo spaurisca il bimbo e lo acqueti. Altra volta si auspicano ricchezze smisurate; o si vagheggia un paese di Cuccagna con piogge di maccheroni, montagne di cacio, pietre che son carne, acqua ch'è vino. Ecco alcune di queste ingenue cantilene nella trascrizione del Bellizzi (6):
a) Sûonne sûonne tu da luntäna vîene !
Vîene che mme San Giorge cavalîere!
Vîen' a ccavall' a nu cavalle bianghe,
C' la sella d’òr’ e cc' la vrigghia d' argîente !
b) Sanda Necole nem-buleve menne:
Vuleve carte, calamär e ppenne !
Sanda Necole 'm-buleve mennuzze:
Vuleve turcenîell' e ppanettuzze !
Sanda Necole ’m-buleve canzune;
Vuleve patrennûost’ e rrazzijune!
c) Ninna-nanne, ninnarelle:
'U lupe s'ha magnät' a pucurelle!
Tu, pucurella mije, cume facisse
Quanne 'm-mocc' a lu lupe te vedisse?
d) Ninna-ninne - ninna-nanne:
Sta bella figghie la cante la mamme!
Ninna-nanne: si’ figghie de tre mmamme:
Figghi' a Mmarij’a Mmatalen’e Ghanne!
Ninna-ninne, ninna-nanne:
Figghie de Princep' e ppersona granne!
e) Palazze de giujille frabbecäte
E 'ntunacäte de curalle fìne
I pedamente d'ore martenäte
E a fenestrell'a stella matutine.
f) Vurrije ca chiuvessre maccarune,
E 'na muntagne de cäse grattäte!
Li prète de la sträte carn'arrustute:
E l’acque de lu märe vin’anneväte! (7).
Nella melica popolare, che meglio esprime sul ritmo d'una melode gioie e tristezze, passioni e aspirazioni del volgo, non è difficile cogliere qualche fiore.
Si noti con quanta snellezza e fluidità si snodano queste ariette, che rivelano peraltro un'origine letteraria:
a) Quante me si' sempateche,
U schiavuttella mije!
Ah, quante pagarrije
Pe' sta' vecin'a tte!
M'he' fatte 'na ferite:
N en ze pote sanà'
N en ze pote guarì' !
Quante si' ffatta rosce:
Me päre 'na ceräse!
Te vurrije dà' nu väse
A-ddò' piäci-a mme!
(ritorn.)
Quante si' ffatta janghe:
Me päre 'na recotte !
Te vurrije dà' 'na bbotte
A-ddò' piäci-a mme!
(ritorn.)
ecc., ecc ....
b) Tu dûorm'a lu cuscine,
Ije cant' a lu serene:
Spezzäme sti catene
E nen ci-amäme cchiù!
Ah, Marijucce!
Ah, Marijucce!
Affaccete nu poche,
Sennò me fäj murì' !
Quante te vogghie bbene,
U Marijuccia mije!
Ah, quante pagarrije
Pe' sta' vecin'a tte!
(ritorn.)
Fammille 'na reselle,
Cunzûole quistu core;
So' spaseme d'amore
Ca soffr'ije pe' tte!
ecc., ecc ....
Non è difficile riconoscere, dalla disposizione delle rime, dal ritornello e da altri indizi, che i due componimenti sono opera di qualche verseggiatore non digiuno di lettere, e che essi arieggiano alcune antiche canzonette napoletane, ma è da escludersi che siano stati importati dalle «stampe». E' da ritenersi piuttosto che l'anonimo poeta abbia rimaneggiato a suo modo vecchi motivi popolari. Le due ariette furono pubblicate, la prima volta, in una raccoltina di pessimo gusto (8); qui abbiamo riportate solo alcune strofe, adottando, come per tutti gli esempi che verremo via via citando, il sistema di trascrizione del Bel1izzi, il quale tenne una via di mezzo tra la forma etimologica e quella strettamente fonica (9).
Tra la poesia popolareggiante adespota è da porsi, secondo ogni probabilità, anche questa specie di canzone su La monacata per forza, o meglio su la fanciulla costretta dalla madre a farsi monaca, tema che non di rado s'incontra nella poesia popolare di altre regioni (10). Alla lezione della citata raccoltina si preferisce la seguente:
c) - M'ha ditt' a-jire sser' 'a palummelle:
«Mamme te vole fa' 'na munacelle;
Si' munacell'e tîen' 'u nnammuräte? ».
- Munacella sola sole,
So' (si') ppeccät'a ddorme sole.
A ccussì vole
La sorta mije (tuje),
Sorta teranne!
-Mamme me vole fa' 'na munacelle,
Mamme me vole fa' murì 'nt' 'a celle! -
L'ûocchie d'u ninne tuje; doje funtanelle!
(ritorn.)
-Scûorde, mia bella, scûord' 'u nostr'amore,
Tîeneme sembe tîenem int' a stu core;
Tu träs' int'a la cell'e ije me more!
-Munacella sola sole,
Si' (so') ppeccät'a ddorme sole.
O Ddije d'amore,
Chi m'ha-dda luvà'
Sta pèn'a 'u core?
La canzone non è bella, ma ritrae con accorata mestizia il distacco dei due innamorati.
Letterariamente rozza e disarmonica è questa serenata che bisognerebbe rintracciar meglio (11):
d) Tu fäi la ninne,
Nennella mije;
E si lu cîele
Me dà furtune,
Quanta pazzije
Ch'avima fa'!
Che ffestine, nenna mije:
Sûon'e ccante!
Addumannà' te vurrije
Cume se fäce l'amore;
Spere ca t'hagghi-a spusà'!
Una certa originalità presenta invece questo Lamento di donna abbandonata, che più si avvicina all'andatura schiettamente popolare. Lo schema metrico lo avvicinerebbe alla forma dello strambotto, ma l'ordine delle rime risulta spesso turbato. I trapassi da una strofe all'altra sembrano abbastanza arditi e, anche per questo, si sarebbe indotti a supporre che le quattro stanze non siano che frammenti mal cuciti; ma qui potrebbe trattarsi di apparente incoerenza, frequente nella poesia popolare. Riportiamo dalla solita raccolta (12) le tre ultime stanze, migliorando la lezione, senza però ridurre alla giusta misura i versi difettosi, che spesso s'incontrano nella poesia popolare. Sarebbe facile emendarli; ma le sovrabbondanze o deficienze vengono corrette dalla musica che di solito accompagna i canti popolari:
e) Quille ch' he' ditte l'hagghie sapute!
Quille ch' he' ditte l'hagghie sapute!
La nôve, l'avecîelle, guaglione mije,
La nôve l'avecîelle m'ha purtäte!
Ije te cante l'arije d'arute;
Ije te cante l'arije d'arute:
Pe' tenè' ment'a tte, gttaglione mije,
Pe' tenè' ment'a tte me so' perdute!
Vurrije saglì' mo 'n-cîele, si putesse;
Vurrije saglì' mo 'n-cîele, si putesse:
Che 'na scalella d'òre, guaglione mije,
Che 'na scale/la de trecîente passe;
Quann'arruvasse 'm-mîezze se rumbesse;
Quann'arruvasse 'm-mîezze se rumbesse!
lnt'a li vrazze tuje, guaglione mije,
lnt'a li vrazze tuje me truvasse!
Quanne nascisse tu, guaglione mije;
Quanne nascisse tu, guaglione mije;
E se 'mbuntäje lu sole, ninne mije,
E se 'mbuntäje lu sole da levante!
Lu ponte d'Incurnäte chine de rose;
Lu ponte d'Incurnäte chine de rose:
Passe lu ninne mije, e se repose,
E po' la nenna suje se sunnasse!...
Questo canto iterativo esprime, con immagini conosciute e care al popolo, il tormento di una fanciulla tradita, effuso in accenti di sconsolata tristezza e di nostalgico abbandono. Bella e ardita l'immagine della scala de trecîente passe, tutta d'oro, su cui l'innamorata vorrebbe salire, per cadere poi nelle braccia dell'amato, e trepidante di tenerezza l'ultima strofe! In complesso il componimento non è che un rozzo tentativo di espressione artistica, ma non mancano movimenti drammatici e limpida concisione. I primi versi dell'ultima stanza richiamano alla memoria alcuni strambotti siciliani:
Quannu nascisti tu, facciuzza pronti,
Lu soli annavanzau 'n'autri dui tanti...
si canta ad Alimena; ed a Milazzo:
Quamm nascisti tu, bella munita,
Fusti di lu Granturcu addisiata ...
e con gli stessi accenti a Casteltermini, a Borgetto, a Polizzi ed a Palermo (13).
Anche in questi scoloriti stornelli traspare la schietta passione del popolo verso l'essere amato:
f) Fiore d'amente:
Si tu vûo' bben' a mme, famme cuntente.
Fiore d'amente.
Fior de ceräse:
Si vûò' la vita mije m'he' dà' 'nu väse.
Fior de ceräse.
Fiore de giglie:
Velen' ije pe' tte nen me ne piglie.
Fiore de giglie.
Fior de lemone :
Prima ca tu me lasse, ije t'abbandone.
Fior de lemone.
Fiore de rose:
Velene 'n-cûorp' a mme nen ce repose.
Fiore de rose.
ecc., ecc ...
Ecco infine qualche esempio di canti nati tra le pareti della prigione, dai quali traspare il sentimento della libertà perduta, il cruccio per l'amore ostacolato, lo sdegno e l'odio e la brama di vendetta verso chi n'è stata la causa:
a) . . . . . . . . . . . .
Vurrije 'na mezza sciabule,
'Na mezza carubbine:
M' abbastarrije fu stomache
De fa' 'na rruvine!
Li carcere so' de fîerre
A mmagli'e ccruce retorte:
Vurrije cchiuttost' 'a morte
E nno lassà' tte! (14).
Quella «mezza sciabola» e quella «mezza carabina», con cui il terribile prigioniero vorrebbe menar strage, producono un effetto comico per il contrasto tra la serietà del sentimento espresso e l'atteggiamento donchisciottesco del cantore.
Più caratteristica questa strofetta cantata dall'ex malavita foggiana, che aveva i suoi gradi gerarchici, il suo statuto, il suo gergo, 1 suoi canti, a somiglianza della vera «camorra napoletana» (15):
b) Mannaggi-'a 'mpäma legge
Ca me vole ruvenà' !
Mannaggi-'u delegäte
Ch' 'a lebertà m'häve leväte
Tenghe nu rutul 'ammanecäte
Pe' sfazzumà' la mutru'-a 'u delegäte
Ca m'häv'ammunit' e survegliäte!
Vorremmo poter dare qualche esempio dei nostri canti religiosi e storici e politici; e trattare, sia pure fuggevolmente, delle leggende, delle fiabe, delle novelline, dei racconti popolari, che pure sono un prodotto non secondario dell'attività fantastica e poetica del popolo, ma la cosa presenta non lievi difficoltà, non soccorrendo l'opera di alcun folclorista. Fu anzi notato che nella nostra città non potè fiorire la « poesia sentimentale del passato», aleggiante piuttosto « nelle fredde vallate, presso i castelli e i boschi e i monti dirupati e i torrenti rumorosi, dove le edere e i muschi rivestono pietre secolari, che « nei vasti piani soleggiati, dove più civiltà e generazioni e secoli sono passati come il vento, senza lasciar tracce profonde». Qui « è più frequente e costante la tradizione di una festa, di una costumanza, ravvivata dal periodico esempio annuale »; qui è più facile trovare « la poesia vivace dell'oggi, rinnovantesi ad ogni rifiorire di rose » (16).
Questo giudizio, s'intende, va accettato col beneficio d'inventario; ma non si può disconoscere che, di tutto il patrimonio tradizionale del nostro popolo, pochissimo rimane affidato alla scrittura, poco alla fallace trasmissione orale, e che questo poco non è stato oggetto di assidue e pazienti ricerche, sia nel raccogliere le varie lezioni, sia nell'accertare le notizie illustrative del materiale raccolto.
Cosicchè, sulla base di scarse e incerte testimonianze, non è possibile pervenire a sicure conclusioni, ma i temi, i modi, le forme, gli atteggiamenti della nostra poesia popolare sono su per giù gli stessi delle altre regioni d'Italia, con prevalenza di elementi siciliani, napoletani, abruzzesi; mancando da noi una vera e spiccata originalità, che peraltro di rado s'incontra nelle altre provincie italiane, dove, ad eccezione della Sicilia e forse anche della Toscana, sono rari gli esempi di canti veramente originali e locali.
(6) Cfr. il citato opuscolo del B., pp. 21, 22, 24, 53; inoltre i nn. 15, 16 e segg. de L'Aurora (Foggia, 1894).
(7) Per riscontri: Apulia Fidelis, di N. Zingarelli e M. Vocino, p. 55, 56, 57, 138, (Milano, Trevisini).
8) Cfr. La Tradizione folkloristica (sic) foggiana nei Canti del popolo a cura dell.O. N. D. (Foggia, Zobel, l930). Per i riscontri: S. La Sorsa - Trad. pop. pugliesi, Sez. I, Canti d'amore; pp. 82, 129; § 67, 244, 245.
(9) Il B., per esempio, a chi dava l'ostracismo all'e muta, consigliava di leggere L'E, E, E ... di Giuseppe Rizzi, «dopo di che da qualunque parte vi volgeriete, non troverete che l'e muta, l'e muta, l'e muta, l'inevitabile spettro persecutore dei dialettisti e-mutofobi». Così, per il dittongamento di uo, egli adoperava il simbolo ûo, ossia l'u con l'accento circonflesso e l'o atono (in corsivo), e scriveva « sûonne» e non « sunn' », « dûorme » e non « durm' »; per indicare il suono cupo dell'a, simile a quello dell'eu francese, usava la dieresi sull'a, ecc. Il B., insomma, cercò di attenersi alle norme per la compilazione dei vocabolari dialettali, dettate da G. I. Ascoli, L. Morandi e F. D'Ovidio, i quali raccomandavano, tra l'altro, di rappresentare i suoni dialettali « con espedienti facili e piani, non troppo inusitati, nè contrari alle consuetudini ortografiche, nonchè della lingua, ma dello stesso dialetto, se questo abbia avuto una cultura e possegga una non irragionevole tradizione ortografica», insistendo sul fatto di « servirsi il più possibile delle lettere e dei nessi alfabetici della lingua letteraria, senza mutarne il significato e il valore». (Cfr. Rel. e R. Decr. N. 6687, Ser. III, in Gazzetta Uff. del Regno d'Italia, N . 82, del 7-IV-1890).
(10) Cfr. La Poesia Popolare Italiana - studi di Alessandro D'Ancona nota a p. 148, (Livorno, Giusti, 1906).
(11) Cfr. Bellizzi, op. cit., pp. 57, 58.
(12) Pag. 25. La seconda stanza di questo canto è ripetuta, con qualche variante in alcuni paesi dell'Italia merid. (Cfr. Casetti e Imbriani, Canti pop. delle prov. merid., v. II, pp. 75, 205, Firenze, Loescher, 1871).
(13) Cfr. Canti popolari siciliani raccolti e illustrati da G. Pitrè - vol. I, pp. 28, 185 e segg. (Palermo, Pedone-Lauriel, 1870-'71).
(14) Racc. cit., p. 26.
15) La Malavita a Foggia ne «Il Mattino» - A. III, n. 257 (Napoli, 15-IX-1894), ristamp. in «Archivio per lo studio delle Trad. Pop.».
(16) Cfr. G. B. Marchesi - In Capitanata: Impressioni di un folklorista in «Archivio per lo studio delle Tradizioni Popolari» diretto da Giuseppe Pitrè e da S. Salomone Marino; vol. XX, pp. 8-27 (Palermo-Torino, Clausen, 1901).
Il compianto prof. Marchesi, autore di buoni studi critici e di pregevoli compilazioni scolastiche, non omise però nel suo lungo saggio di far posto ad alcune nostre leggende agiografiche e a qualche racconto popolare. Ci piace riportare qualcuno di questi documenti della viva immaginazione del popolo:
A proposito del vento che soffia sempre impetuoso nella piazzetta della Cattedrale, il Marchesi scrive: «Là, in quel quadrivio, a qualunque ora passiate e in qualunque stagione, sarete colpiti, sferzati, avvolti da ogni parte dal vento. E' la piazzetta del vento, ed io non me la so ripresentare senza vedervi uomini con le mani al cappello e donne con le gonne e con gli scialli sventolanti. Il popolino racconta che una volta passarono da quel luogo il vento e il diavolo; e, poichè presso alla chiesa era un convento di monache, disse il diavolo al suo compagno di viaggio: - Io entro là per cercar di togliere a Dio l'anima di qualche suora, e tu aspettami qui fuori sui gradini della chiesa. - Il diavolo entrò e, visitando ogni cella, s'imbattè in una suora, cui il volto splendeva di bellezza divina. Subitamente l'avvinse, la sollevò sulle braccia e, dimentico e geloso del compagno, uscendo a volo da una finestra del cortile, la portò seco all'inferno. Il vento da quel giorno aspetta ancora, nella piazzetta, che il diavolo esca dal monastero, e intanto soffia nel volto ai poveri mortali ». Questa novellina si racconta anche in altre parti d'Italia. Così nel Comasco, dove manca però il particolare del monastero e della suora che si trova nella versione foggiana. Adelaide Pozzi (cfr. «Rivista delle Trad. Pop.» A. I., n. 1, p. 43) dice d'averla letta in una raccolta inedita del cav. Barelli.
«In via Manzoni (continua il Marchesi), si indica una certa Grotta di Grilli, un antico antro nel quale si scende dalla strada per alcuni gradini, e che conduce a tre oscuri corridoi. Si dice che Grilli fu un vecchio bottaio, che lavorò lunghi anni in quella grotta, la quale, prima ancora, fu abitata dal diavolo».
«In Largo Pannivecchi è una casa imbiancata a nuovo, ma coll'alto zoccolo declinante a sperone, che rivela sotto la nuova veste un'ossatura molto antica. E molto vagamente alcuno racconta che quella casa fu un palazzotto ove si svolse un dramma d'amore: un vecchio conte vi uccise l'amante della sua giovane sposa, la quale a sua volta si uccise. Quale fondamento storico ha questo racconto? ».
Un'altra novellina, nella quale c'entra pure il diavolo, è quella raccontata dal Bellizzi (in Riv. delle Trad. Pop., A. I, fasc. 9, pp. 721-722):
"Il diavolo compariva spesso in forma di animale a sant'Antonio, o per tentarlo o per tormentarlo; ma egli, col segno della croce, lo faceva sparire. Una volta gli comparve in forma di porco. -Bene! -gli disse il santo - l'hai proprio indovinata la vera forma che più ti sta: hai creduto d'ingannar me fingendoti porco, ma l'inganno cada sopra di te! Rimaniti dunque nella forma che hai presa! -Il diavolo dovette ubbidire, e rimase così fino alla morte del santo, il quale se lo tenne sempre con sè, a vergogna e confusione del maligno, che non poteva in alcun modo dargli molestia. Il campanello serviva al santo per fugare i demoni, o, per meglio dire, è il simbolo della virtù ch' egli aveva di metterli in fuga e di vincerne le tentazioni, essendo tale virtù attribuita dalla Chiesa, nel Rituale Romano, alle campane benedette ». Anche questa novelletta ricorre infinite volte nelle tante versioni d'ogni parte d'Italia.
* * *
Le prime manifestazioni letterarie della nostra poesia dialettale non hanno nessuna lontana parentela con l'arte; non si può quindi reclamare per esse il diritto di cittadinanza nel regno di Poesia. Ma se non abbiamo un poeta dialettale nostro da porre accanto ad un Porta, ad un Belli, ad un Meli, ad un Pascarella, ad un Di Giacomo, i primi tentativi nostri, giudicati come tali, non mancano di qualche pregio.
La scarsità dei componimenti che abbiamo sott'occhio e la difficoltà di procurarci le cose migliori, non ci permettono un'esatta valutazione della produzione poetica di Michele Accinni, di Elisa Giordano ('A Crucesella) e di qualche altro, che, massime nei sonetti «A' premera », « Spartenza amara», «Menzanotte», sanno cogliere aspetti caratteristici del nostro popolo, ed imprimervi una nota personale. Possiamo tuttavia riportare, a titolo di curiosità, un sonetto inedito della Giordano, ed un'altra poesiola attribuita a Luigii Rispoli (17).
Il sonetto inedito non è gran cosa; è un consiglio e un ammonimento ad una fanciulla maldicente; v'è peraltro qualche immagine delicata e graziosa. Ascoltatelo:
a) Nu recorde de Fogge assalijäte?!!
Ne dice cott' e crude ogne mumente!
Eja accussì e ccullì, nen väl' a nîente!...
Embè, sîente: Fogge eja sbenturäte!
Parò nen tene fele, e se ne preje
Ca si' bell', cervellin' affurtunäte;
Ma si nen vuò' parè, malambaräte,
Gnu paiese ass'lu sta' cum'eja eje;
'N -dò' te trûove nen esse' desprezzante:
D'u bûone popule 'u tresore fine
Lu venge 'a murvulezze addicrijante;
Ma... assemmegghie a nu vrite mine mine:
L'he' manià' cume reliquia sante,
Sennò - paft! - cum'azzoppe se sfraine.
La poesiola del Rispoli è più caratteristica. E' breve: tre strofe tetrastiche di endecasillabi a rime alternate; e vorrebbe rappresentare l'ora della mezzanotte nei rioni popolari di Foggia, quando il giovinastro intona una canzone di amore; il «terrazzano » si prepara ad andare in campagna, anche quando soffia gelido il vento; mentre di lontano s'ode il suono del mandolino e giunge l'eco d'una festa da ballo. Eccola:
Aaah! ammenazz’ lu ciucce ‘u mulenäre;
E nu guaglione cante pe la vije:
-Cum’ e la renele vularrij vuläre
Sop’ u balcone de la nenna mije!-.
Tutte se so’ ‘ddurmut’ e dda luntäne
e sent’ lu sûone de lu pandulline.
Stann’ abballanne, mentr’ ‘u tarrazzäne
väce ‘n-campagne cu sta fuleppine.
- O Pataterne, dice, pecchè a stu munne
Ci-ha dda ghesse sta sorte ‘ defferenze,
Ca une väce tant’avt’e n’at’affunne?
Pigghiamacille ‘n-zanda pacijenze!-
E' un lavoretto un po' manierato e convenzionale, ma c'è molto sentimento, e il motivo melanconico dell'ultima quartina, ci rivela lo spirito di rassegnazione del nostro contadino.
Potrà invece riuscire interessante una rapida scorsa tra i componimenti del Bellizzi, che, relativamente, è il più fecondo e il più rappresentativo dei poeti dialettali foggiani (18). S'egli abbia o meno rispecchiato l'indole del nostro popolo, o più esattamente ne abbia riprodotto i costumi e il linguaggio, ci pare ozioso indagare, non sembrandoci, queste, condizioni intrinseche per definire poeta dialettale un qualsiasi scombiccheratore di versi in vernacolo; ma solo condizioni accessorie, sia pur degne di nota e di lode. Ciò che c'interessa è la soggettività poetica dell'artista, in quanto elabora, con forme proprie e nuove, concetti e sentimenti popolari.
Le prime composizioni del Bellizzi, rimontanti agli anni 1892, '93 e '94, sono, nell'insieme, fredde e senza colorito; di rado troviamo qualche scena di vivacità e di grazia, come nella poesia « 'A dumenech'i palme » (1892), quando descrive l'usanza di gettare ad una ad una le foglie d'ulivo nel fuoco, e d'interrogare se alcuno dei presenti morrà nel corso dell'anno:
c) Si la fronne se ne fuje,
tann' è ssigne ca nen-more
lu cumpagne muntuväte;
si la fronna tradetore
vole ferme rumanì',
'n-c' è cche ffa' ... ha dda murì'!
ecc. ecc.;
o quando nel « Sabbte-Sante » ( 1893), rappresenta la funzione religiosa che si svolge in chiesa, tra il mormorio confuso della folla, che diventa chiasso sfrenato non appena s'intuoni il Gloria:
d) Madonna mij' e cche te vite tanne!
E chi te pot' acuntà' lu remore?!
Trezzéh, trezzé/1, trezzéh! ... sone la bbanne,
se sonene campän'e ccampanîelle,
se tir' 'u tlon' e ghesce lu Segnore
'n 'aterne de la morte vencetore,
se sbalanzane p' l' arie li vecîelle,
e ttutte quant'lu pople luccl' e strille
e ffäce nu fragasse 'ndiavuläte
guardanne l'avetär' e li vecîelle,
tutte cuntent' e ttutt' addecrijäte!
Ma sono composizioni in cui manca l'originalità e l'afflato poetico.
Così ne « 'A ville de Fogge » (1892), ch'è d'intonazione letteraria, col solito repertorio di luoghi comuni, di frasi e d'immagini trite e viete; ne « L'addije d'lu pople fuggiane » a mons. Marinangeli (1893) e nel sonetto « A Mmanzegnore nuove » (1894), lavori imperfetti e mal riusciti, in cui non senti vibrare nessuna nota poetica, come in « Brutt'erve, brutta ggende! » (1893); illustrante un noto motto popolare, che riesce sguaiata e plebea.
Un certo progresso lo notiamo nella poesia « N'ore de notte», scritta nel '94 e ripubblicata, con qualche variante, nel '916. Comincia con due strofette tradizionali:
e) Ndooo!... ndooo!... ndooo!...
« N'or'de notte:
L'angel' arret' 'a porte,
Marij p' la cäse,
'U mäle ghesce e ' u bûone träse!
Tezzon' e ccaravone:
Agnun'agnun' a i cäse lore!
Ki väce 'n cumpagnije
Trov'la morte pe la vije! »
Di lontano s'ode la campana di S. Pasquale che suona a distesa; tutto il paese è tranquillo e da nessun rumore turbato; la campana continua a suonare: tutta pace, lenta e dolce. Ed ecco:
Sola sole cum'e n'aneme
E ammantäte bona bbone,
Shcattiann shcattian li zûoccle p' 'u stratone,
Pass' na povra ciucruijäre
Arruväte mo da fore,
C'lu senäl e c 'nu sacche sop'i spalle
Chine chine 'e funucchijille,
Arrezzenut' 'e fridd' e ffategäte;
E ccamine c' la cäp 'â cäsa suje
E c'la trippa vacante, povra sore,
Lucculanne c'na vocia scunzuläte,
Ca trapän' e squart' 'u core:
" I funucchijlle jaanghe!
I funucchijelle jaaanghe!
Odi le voci stentoree dei fruttivendoli: e, dopo tempo, la campana che, secondo una pia costumanza, si suona per invocare la protezione divina su le partorienti:
Mbooo! -Salvreggine, Matre mescrecordie! ...
Madonna mija belle, tienla mente
E falla spiccià subbte 'n-zalvamiente!
E quistu figghie, ch'a lu munne vene,
Fallu cresce bûon' e ssande
E accummûogghiel d' ogne bbene!
Ma si nun ha dda hesse buon' quaträre
E 'm-bularrà sentì 'li bbûone avise,
Battez' e paravise! - ecc. ecc.
In complesso, piace; ma è un po' artificiosa e le frequenti intrusioni delle voci di venditori, nuocciono all'unità estetica del componimento.
Le poesie « A' neve » e « 'U fridde » entrambe del '94, assai graziose, vennero fuse nel '916 in un'unica composizione: « Fridd'e neve», di cui ci occuperemo più innanzi.
Nel sonetto satirico,« E l'uva mije? » (1894) indirizzato dal Bellizzi al censore delle sue composizioni, che ne aveva messo in rilievo i difetti e taciuto i pregi, non v'è l'acrimonia caustica e mordace, che non poteva allignare nell'animo candido e mite di chi lo scrisse.
Il componimento «'A fest'u Carmne » (1895) è senza vita, troppo fotografico: non v'è per nulla la partecipazione dell'animo del poeta a ciò che vede e sente. Il Bellizzi non riesce assolutamente nel genere umoristico, nè a rappresentare lo spirito giocoso o buffonesco del popolo.
Egli è un pessimista, un crepuscolare: è capace talvolta di trattare con tenuità e delicatezza temi nostalgici e melanconici, come nella poesia « A l'anne nûove » (1896):
f) Ghanne nûove susperäte,
Si' vvenut' a cunzularme,
O stu côr adduluräte
Si' vvenute pe squartarme?
Vita vecchi' e vvita nove,
Vann' e vvenen' ogn' e ghanne;
Ma ij rumän'a 'n-do' me trove,
M-'mîezz' a gguäje pen e affanne.
Pèn' e affann', affann' e ppene
Ca me stanne semp' attûorne,
So' lu päne d' ogn' e gghiûorne
Ca la vite m'avvelene.
C'è in questi versi, veramente sentiti, tutta l'amarezza del suo animo e un sospiro remoto di rimpianto, che seduce e commuove. Il sonetto « 'U Bbarbanere » (1896) non manca di naturalezza e di spontaneità:
g) - Che ffurtuïte tîempe s'è vvutäte,
Ca n'atu poche se carrej li cäse,
E cce rumäne tutte 'm-mîezz' la sträte,
Sott'acque, sott'a vvîent, e ssenza cäse!
E ttu nen-zäje, Bbarbanere che mmette?
Jelät' e mmalatije manc' li cäne,
Tarramute cu ttronel' e ssajette,
Murtleta' d'anemäl' e ccrestijäne! -
'N-zacce che mmalatije c'hann'avè'
Markise, duche, cont' e ccavaliere...
Pe 'n-zin' a-vi-te quille de lu Rre!
-Uh, uh! Madonna mij', e cche ssarrà?
Fall' ess' busciard' aguann' 'u Bbarbanere,
Ca sennò, povr' a nnuje, cum im-a fà'?
Degno di nota ci sembra pure « 'U Mesarere » (1910), ch'è poi la traduzione in dialetto foggiano del popolare salmo davidico.
Ma una delle migliori composizioni del Bellizzi è quella intitolata« Fridd' e neve ». In essa, il poeta cerca di organizzare e di fondere alcuni motivi convenzionali:
La tramontaccia fischia così gelida e impetuosa, che
h) 'M-mîezz la sträte tu supponte,
Sciopp' da 'n cäpe lu cappîelle
Senz' nu murze de crijanze,
'M-pacce 'u mure te sbalanze,
Tagghie 'a facc'e jel 'u näse! ...
Il freddo è così amaro
Ca te jele lu fiäte
E te fäce zumbà' l'ogne! ...
Il tempo nevoso ti fa rattrappire e tremare, mentre l'angelo che si aggira intorno alla croce del campanile (qui l'immagine è tolta dalla fantasia popolare), è costretto a contrarre le gambe per il gran freddo:
Ha 'rrugnät 'u pete l'angele,
Ca pur' is fäce pezzille
'M-pacce 'a croce 'u campanäle!
Un povero uccellino sperduto riesce a stento a fendere il vento ed a volar dritto sul tetto più vicino, dove
Zomb' nu poch' e po' sparisce,
Già i primi fiocchi di neve cadono lentamente, mentre i monelli saltano e corrono allegri e giulivi e gridano a tutta gola la strofetta tradizionale:
... Jocca! jocche!
E lu päne de Fijocche!
E lu grän' a ccin-carrine!
E lu pûorche'nt'a cucine!
Ora la neve è più continua e più fitta:
-Fäce 'a neve, fäce 'a neve!
P'li quaträre che prijezze!
A tteh' tteh! li mosche jianghe
Cum' acalne! Che bbellezze!
Poi diviene più impetuosa, più violenta, mentre, sotto il fioccare infuriato,
Passe n' ome de carrere
Agguattäte täl' e quäle
Cum' lu päne de Natäle.
Si notano in questa prima parte del componimento elementi poetici giustapposti, che il poeta non ha saputo, per iscarsezza di fantasia, organizzare, fondere e concretizzare nella raffigurazione. Ma quand'egli, preso da un impeto di tenerezza e di pietà per coloro che soffrono, cerca di rivelarci il suo mondo interiore, di dare sfogo ai sentimenti che si agitano nel suo animo; allora il tono poetico è un poco innalzato dalla nota elegiaca:
Quanta gente stäce a spasse
Cu stu tîemp' accussì 'mpäme!
Quanta misr' e scunzuläte
Malvestut' e mûort' e fäme!
Povra carna vattijäte!...
Ki ci abbäte? Ki ce penze?
Ki ve päche 'a pacijenze?
Tanta pene k' 'i remmire? ...
Ecche vnì repun' repune,
Cum'e n'anme' abbandunäte,
Nu pezzente mûort' 'e fridde
C' nu mantîell arrepezzäte
E accurcäte sop'na frevule,
Tutte livte facc' e mmäne,
Ca s'ne väce acchiän'acchiäne
M-mîezz'i scäl' 'u purtungine,
-Tu lu vit' a mmamma suje,
Quillu povre vecchiarîelle,
Ca 'n-ze pot' arracanà?
Che peccäte! ... poverîelle!...
Pure pe isse stäce Ddije,
Ca cunzole, pijatuse,
Tutt' i povr' e tutt'i 'mplice,
Li pruvet' e 'i benedice.
Risuona in questi versi la corda dello sconforto, della pietà, e poi della fiducia in Dio, che solo lenisce le pene degl'infelici. Il sentimento tragico della vita è qui attenuato e superato dal sentimento cristiano.
Ma tutti questi sono motivi ancora vaghi e non bene determinati, e non generano espressioni di vera e genuina poesia. C'è nel Bellizzi l'animo poetico; ma la poesia vien meno.
Dopo aver cercato d'intravedere, attraverso gli argomenti d'una polemica interessante, se è possibile parlare d'una letteratura dialettale foggiana; dopo averne delineato approssimativamente gli aspetti essenziali; e indagato su ciò che da noi s'è tentato di fare in questo campo, sia per ciò che riguarda la raccolta del materiale folclorico, che per quanto concerne le prime manifestazioni letterarie della nostra poesia dialettale, che abbiamo esaminato sommariamente, rilevandone la discontinuità nella linea artistica; sarà lecito augurarsi che il rinnovato fervore per gli studi delle tradizioni popolari sia veramente durevole e proficuo; che il Comitato foggiano, sorto con gli auspici dell'illustre critico Nicola Zingarelli, si renda veramente benemerito, non solo ponendo mano alla compilazione di un «Vocabolario dialettale di Capitanata», e curando con metodo buone raccolte del nostro patrimonio folclorico, che possano reggere il confronto con quelle del Pitrè, del Righi, del Nigra, dell'Imbriani e di molte altre più recenti (19); ma anche promovendo e incitando un vero e proprio risveglio poetico.
(17) Fu pubblicata nel numero unico letterario «Maggio» (Foggia, 1905).
(18) Quasi tutte le poesie del B., cui si accenna in questo saggio, furono pubblicate sul periodico letterario «L'Aurora» (Foggia, 1893-1896). Il B. promise che avrebbe raccolto in volume tutti i suoi versi, editi e inediti, sotto il titolo "Zoche de spanne»; annunziò pure la pubblicazione di altri lavori «Le voci dei venditori ambulanti a Foggia», « La vite de li sculäre e la scole de san Ghiitäne»; «Le preci della Chiesa tradotte in dialetto foggiano»; ecc. ecc.); ma, per varie ragioni, non potè tradurre in atto i suoi propositi.
(19) Ottimo il recente libro («Tradizioni popolari pugliesi, Sez . I, Canti d'amore », pref. di Guido Mazzoni, voi. I, 8°', pp. 300, Bari-Roma, F. Casini e F., 1933 - L. 15) del prof. Saverio La Sorsa, giustamente denominato « il Pitrè della Puglia».
Ma, nella trascrizione dei pochi canti foggiani compresi nella cospicua raccolta, sarebbe stata desiderabile una maggiore aderenza alla fonetica del nostro dialetto. Così ci sembra più esatto scrivere ije e non jì; vîene e non vine; 'n-zûonne e non 'n-zonne; 'm-pîette e non 'mpiette; recîette e non recitte; trûove e non truvi; jûorne e non journe; sûone e non sune; tuje e non tue; ténghe e non tègne; ceräse e non cirèse; ije decìje e non ii dicèi; 'nu väse e non 'nu bèce (se nel contesto fa rima con ceräse); väche e non vai; sembe e non sembre; sta o stäce e non stè; uppîerze e non appirze; trûovete e non trùvate, ecc. (cfr. op. cit., pp. 78, 79, 111, 214, 235).
GLOSSARIO
Nel compilare questo glossario, non inutile all'esatta interpretazione del testo dialettale, ci siamo spesso giovati delle sapienti note, apposte dal Bellizzi in calce alle sue composizioni.
A.
abbadà': badare.
abbäte: ind. pres. di abbadà' .
acalà': calare, scendere; da calare, con prostesi dell'a, come per avastà', achiute, amente, adumà', ecc.
acàlene: ind. pres. di acalà',
accurcäte: curvo, curvato; da corcato.
accussì: così
addecrjà': ricreare.
addecrijäte: part. pass. di addecrijà'.
a-ddò': dove.
addumannà': domandare.
affunne: in fondo, in basso.
aguanne: quest'anno; dalla voce arcaica ugnanno, derivante da oque (hoc) anno.
agguattà': coprire.
agguattäte: coperto, raggomitolato; da quatto. Agguattäte cum'lu päne de Natäle: coperto come il pane messo a fermentare al tempo di Natale.
ammanecäte: col manico; dall'it. manicato o dal lat. manicatus: che ha il manico.
ammenazzà': incitare la bestia da tiro a camminare; forse da minare e adminare della bassa latinità: condurre, guidare.
arracanà': muoversi liberamente; forse dallo spagnolo arrancarse: slanciarsi, e dallo stesso ital. arrancare: il camminare degli zoppi e dei vecchi.
arrepezzà': rattoppare; da pezza o dallo spagnolo arrepiezo: cencio.
arrepezzäte: rattoppato.
arrète: dietro, di dietro.
arrugnà': aggranchire; dall'ital. arroncare o dallo spagnolo arrugarse: aggrizzarsi, con l'epentesi dell'n.
arrugnäte: aggranchito.
assemmegghià': somigliare.
assemmegghie: ind. pres. di assemmegghià'.
avecîelle o vecîelle: uccello; da aves.
a-vi-te: locuz. avv., alla via di, verso.
àvete o àvte: agg. o avv., alto, in alto.
avetäre: altare.
azzoppe: ind. pres. ai azzuppà'.
azzuppà': urtare.
B.
botte: botta, colpo, percossa.
busciarde: bugiardo.
C.
caravone: carbone
carrejà: trascinare, trasportare col carro.
carreje: ind. pres. di carrejà.
carrine o carline: carlino, moneta borbonica corrispondente a a otto soldi e mezzo.
carubbine: carabina.
cervelline: cervellino, capo ameno, bizzarro, sventato; persona di poco giudizio o capricciosa.
ciucce: ciuco, asino, somaro.
ciucrujäre: cicoriara, erbivendola girovaga.
D.
da fore: di fuori, dalla campagna.
de lu e d' 'u: del; quando queste preposizioni seguono immediatamente il nome da cui dipende la frase specificativa, purchè quel nome termini in vocale atona, si contraggono in 'u ».
desprezzante: sdegnosa, disprezzante.
E.
embè: dunque.
eja, eje: ind. pres. di esse'; cum'eja eje : così com'è.
esse': essere.
F.
fategäte: affaticato.
fèle: fiele, fig. livore, rabbia, rancore.
Fijocche: nome d’un panettiere, nominato nella strof. pop. a cagione della rima.
fore: fuori.
frevule: bastone, canna d'appoggio, ferula, sferza e anche bacchetta per guidare gli animali; da ferula.
fronne: fronda, foglia.
fuje: fuggire .
fuleppine: tramontanaccia, vento impetuoso, brezzone.
funucchjille: finocchietto, finocchio piperaceo.
furtuite: fortuito, casuale, accidentale, improvviso; fig. tepestoso; da fortuitum.
G.
'gnu: ogni.
guaglione: ragazzo; pl. guagliune; dallo spagnolo gallon.
I.
im-a: andiamo a; im-a fa': andiamo a fare, dobbiamo fare; da imus ad.
is: egli, lui; dal pr. lat. is.
J.
jelà’: gelare.
jele: ind. pres. di jelà’.
juccà': fioccare
jiute: part. pass. di jì': andare; da ire.
L.
livete: livido, illividito.
lucculà': gridare vociare; da loquor?
luccule: sost. grido; luccule: v. ind. pres. di lucculà'.
luvà': levare, togliere.
M.
malambaräte: ineducato, screanzato.
manche: agg., sinistro; recchia manche: orecchio sinistro; avv., nemmeno, neppure, manc'li cäne: da
non dirsi neppure ai cani.
mannaggia: male abbia, maledetto sia, da male n'aggia.
martenà': martellare, foggiare, lavorare col martello.
martenäte: part. pass. di martenà’.
'mbuntà' : fermare; 'mbuntarse: fermarsi, arrestarsi.
'mbuntäje: pass. rem. di ' mbuntà’.
menne, mennuzze: mammella, poppa.
mine mine: molto piccolo, sottilissimo, da minus comp. di parvum.
'm-mîezze: locuz. avv., in mezzo.
'mpäme: infame.
'mpapucchià’: ingannare, imbrogliare, infinocchiare, raggirare.
'mplice: infelice.
mulenäre: mugnaio, mulinaro, mulinaio.
munne: mondo.
mutrua: faccia, volto; dall’it. mutria, atteggiamento del volto pieno di sussiego o di cruccio.
N.
'n-do' o a-n-do': dove.
nen, nun: non.
O.
ogne: unghia.
P.
palummelle: colombella, farfallina.
pandulline: mandolino.
Pataterne: Padre Eterno.
pe-‘n-zine: persino, finanche.
pete: piede.
pezzille: pizzicore; fäce pezzille: riceve i pizzicori del freddo.
preje (se): si rallegra, si compiace.
prerjarse: rallegrarsi.
prejäte: rallegrato e quindi allegro giulivo, forse da brio, affine al lat. ebrius.
prijezze: contentezza, brio.
purtungine: portone.
Q.
quaträre: ragazzo.
R.
remmirà': rimirare, riguardare, considerare.
remmire: ind. pres. di remmirà'.
rènele: rondine, rondinella.
repùne: rasente; repùn' repùne: rasente il muro, rasentando il muro.
rumäne: ind. pres. di rumanì.
rumanì': rimanere, restare.
rùtule: fig. coltello; dal latino rutilus: luccicante, rifulgente, scintillante, rosseggiante.
S.
saglì': salire .
sbalanzà': lanciare, slanciare, spingere, sbattere.
schiavuttelle: si dice, per vezzo, di fanciulla graziosa, simpatica.
scioppe: ind. pres. di sciuppà' .
sciuppà': strappare, involare; dal lat. exerpere.
T.
tanne: allora, dal latino tunc, per assimilazione progressiva.
tarrazzäne: terrazzano, abitante del borgo Croci.
teh!: per toh!; a tteh!: attento a te! guarda guarda!.
telone: tela, telone, sipario.
tenè' mente: porre mente, guardare.
tezzone: tizzone.
trapanà’: trapanare, forare col trapano fig. trafrggere.
träse: ind. pres. di trasì'.
trasì': entrare, dal lat. transire.
tronele: tuono; da tonitrus.
tumele: tomolo; misura agraria (un terzo di ettaro) e di capacità (litri 45 circa).
turcenîelle: lampredotto.
V.
varre: sbarra.
väse: bacio; da basium.
vattijäte: battezzato; carna vattijäte: carne battezzata. « Bella frase che induce a pietà verso il prossimo sofferente, come soggetto meritevole di compassione per la sua dignità umana. Non è carne di cane, ma di cristiano, che è cristiano ogni uomo ». (B).
vocche: bocca; 'm-mocche: in bocca.
vrigghie: briglia.
vrìte: vetro.
Z.
zombe: ind. pres. di zumbà'.
zumbà': saltare.
zûoccle: zoccoli.
da Amodio Salcesi, Poesia popolare e poesia d’arte a Foggia,
Arti Grafiche UBEZZI & DONES – MILANO, 1933 - XI