Urbano Marano
'U TARRAZZANE
Timbe brutte, i timbe 'andiche ...
P'a mesèrie u tarrazzane
jève accugghiènne cke fatiche
pure 'i prète ind'a mezzane.
Stanche 'e strutte s 'arreterave
ck 'a vesazze chiène 'a tracolle,
sop'a sègge s'arrepusave
e magnave pane 'e cepolle.
Ma sé pane nen ce ne stève,
a sère stèsse s 'annettave
i marasciule d'a mezzane
e p'a strade pò si vennève
fine 'a quanne nen s 'accucchiave
i solde p'accattarse 'u pane.
NASCITA DELLA CITTA'
La Daunia, la grande pianura che si estende dal Sub Appennino Dauno alle radici del Gargano, intorno al mille, era in unostato di completo abbandono, perchè annientata da scorrerie, saccheggi, incendi, distruzioni che, dal sec. VII al sec. XI, avevano subito le varie città daune ad opera dei Goti, Bizantini, Longobardi, Saraceni, Ungari e ancora Bizantini.Gli abitanti, sfuggiti alle calamità, trovarono scampo sulle alture circostanti, mentre le città, distrutte ed abbandonate, furonosepolte dalla polvere del tempo.In mezzo a tanta desolazione, un giorno, il 13 agosto, (correva l'anno 1062 o secondo altri 1073) tre misteriose fiammelle, sulle acque di uno stagno, destarono l'attenzione di alcuni pastori, che avvicinatisi, trovarono e raccolsero una tavola ravvolta in sette tele e, grande fu la loro sorpresa, quando constatarono che quelle tele proteggevano una icone, la quale recava l'immagine di Maria Assunta nel Cielo.A pochi passi da quello stagno vi erano alcune capanne e tra esse una taverna, la Taverna del Gufo.Là fu trasportata la tavola e collocata nel posto più decoroso.Nacque così la prima chiesa, che fu detta Sancta Maria de Focis (Santa Maria delle Fiamme).La notizia del rinvenimento si sparse repentinamente e accorsero tanti pellegrini e molti di essi si stabilirono in modestissime casette formando il primitivo borgo, che in breve prese il nome di Sancta Maria de Fovea o de Fogia ed in seguito semplicemente Foggia. Da allora sono trascorsi molti secoli e quel primitivo borgo si è trasformato in una bella città moderna, fiorente di commerci, di studi e di costumi gentili.
'A CITTA'
Se mò stace sta bèlla città
chè se spanne a ragnatèle (1),
tutt'a gènde hadda rengrazià
a Madonne d'i Sètte Vèle.
Quanne Esse fuje truàte
tutta 'mbosse (2) ind'o pandane,
stève sckitte (3), abbandunate
na tavèrne poche lundane.
Là a purtaje nu pastore
e ck 'u timbe, nu poche 'a vote,
se ne sò fatte de palazze
tutt'atturne a strade 'e chiazze,
longhe, larghe e sènza lote,
na città che se face 'onore.
l) spanne a ragnatele: estende a raggiera
2) 'mbosse: bagnata
3) sckitte: soltanto
da Urbano Marano, Foggia nostra figure e fatti, Grafsud Leone, Foggia 1980.
PIAZZA UMBERTO GIORDANO
In una zona prevalentemente centrale della nostra città è situata Piazza Umberto Giordano, antistante la chiesa di Gesù e Maria. Questa, fu eretta nel 1510 e dichiarata reale da Filippo di Borbone; distrutta dal terremoto del 1731, fu riedificata sette anni dopo con la facciata in stile barocco, secondo la maniera del tempo. Annessa alla chiesa era il convento, oggi sala Pace e Bene, al quale apparteneva tutta l'area attualmente occupata dall'Ippodromo dei Cavalli Stalloni - un tempo Parco Pila e Croce - dalla villa comunale e da tutta quella zona antistante la chiesa e il convento stesso sino all'altezza ove sorgono i Palazzi INCIS. Tale area era denominata Largo Gesù e Maria, e vi venivano giustiziati i malfattori del tempo. Tornando alla piazza, essa non ha avuto mai pace, in quanto nella sua storia i monumenti installati non hanno mai avuto sede definitiva. Il primo monumento, eretto nel 1867 a Vincenzo Lanza, opera dello scultore Cav. Beniamino Calì, venne rimosso e trasferito nella villa comunale nel 1928 per dar posto al Monumento ai Caduti, dello scultore Comm. Amleto Cataldi. Detto Monumento, inaugurato solennemente il 4 giugno 1928 alla presenza di S.M. Vitto Emanuele III, re d'Italia, non ebbe sorte migliore, in quanto nel 1959 venne anch'esso rimosso e trasferito al Piazzale Italia, perchè al suo posto si decise di collocare il monumento a Umberto Giordano. Quest'ultimo fu inaugurato il 26 novembre 1961 alla presenza delle autorità locali, governative e dello stesso figlio del Maestro, Comm. Mario Giordano, cui spettò l'onore di far cadere il drappo che copriva la statua centrale. Esso è l'omaggio che i foggiani hanno voluto tributare al loro illustre concittadino, che ebbe i natali il 28 agosto 1867 e passò alla perenne immortalità in quel di Milano il 12 novembre 1948. L'effige del Maestro è circondata da bronzi, che raffigurano le sue più significative opere: Mese Mariano, Siberia, Cena delle Beffe, Marcella, il Re, Fedora, A. Chenier e formano il così detto Parco Giordaniano, dello scultore veneziano Vio Romano. Osservando le varie opere si può notare che la scultura di Marcella è situata - invero poco felicemente - alle spalle del Maestro. Viene spontaneo pensare che la fanciulla, non potendo godere di una buona visuale, abbia moti di stizza e lanci improperi alla volta di chi l'ha resa immortale. Scherzi a parte, tutto il Parco Giordaniano rappresenta per Foggia l'espressione del giusto orgoglio di aver dato i natali a così illustre Maestro.
‘A RAGGE DE MARCELLE
Nè, Maè (1), mò mè scucciate,
Te vuje luà da nanze?
Nen tine manche crejànze (2),
stach'ije qua assettate.
Fatte nu poche accuste (3),
ije pure vogghie vedè
e quille che tu faje'a mè
nenn'èje pe nninde giuste.
Anè, face sèmbe'u surde,
ma Marcèlle qualche jurne
pìgghie nu bèlle vriccione (4)
e a stu càcchie de lurde,
uì, vace turne turne,
ce terzièje 'u capacchione (5).
1) Maè: maestro
2) crejànze: educazione
3) accuste: di lato
4) vriccione: pietra
5) ce terziè'u capacchione: gli centro la testa
LA CASA FATTA COL VINO IN UNA NOTTE
Al Piano della Fosse, anni or sono, tra le diroccate casette dei terrazzani allineate una accanto all'altra, era ubicato il palazzotto di proprietà di un certo don Francesco Saverio Figliolia, ricco ed autorevole proprietario di terre e di greggi, dalle cui finestre era possibile dominare con lo sguardo tutta l'area che era occupata dalle fosse. In queste venivano conservati migliaia di quintali di frumento ed erano indicate alla superficie da un cippo di pietra bianca di Apricena, dove erano stampati il numero progressivo e le iniziali oppure il nome del proprietario. Il Figliolia era piuttosto cordiale con tutti e siccome conosceva molte persone, sia del luogo che forestiere, quando s'intratteneva presso la sua abitazione, non disdegnava, anche per la sua buona educazione, di rispondere agli ossequiosi saluti che gli venivano rivolti da mercanti, mediatori e popolani. Ma un giorno, non si sa per quale motivo, venne a diverbio con un facoltoso vinaio, il signor Tommaso Antonio Bucci, proprietario e gestore di un'osteria nei pressi del suo palazzo, il quale meditò, per scommessa o vendetta, di costruire un palazzo proprio dinanzi a quello del Figliolia. Purtroppo, però, dopo aver preparato tutto il materiale occorrente per la realizzazione dello stabile, non riuscì a trovare un muratore disposto a concretizzare il suo desiderio, in quanto il suo antagonista non solo aveva sollecitato i muratori della Provincia a non mettersi a sua disposizione, ma aveva anche incaricato i guardiani dei pozzi a non far attingere molta acqua a chicchessia. E già il Figliolia cantava vittoria, quando il Bucci, dopo aver appreso da un avvocato che, se avesse costruito nottetempo l'intero stabile, i lavori non sarebbero stati interrotti, incontrò un abile costruttore, il signor Giovanni Raho, il quale si dichiarò disponibile per la realizzazione dell'opera e gli suggerì di utilizzare il vino in luogo dell'acqua, dato che quest'ultima non era reperibile per gli impedimenti opposti dal Figliolia. Il vinaio accettò di buon grado e, in una notte di duro ed intenso lavoro, mastro Giovanni Raho, aiutato dai suoi undici figli, elevò il palazzo di due piani. Fu una notte densa anche di emozioni, in quanto i figliuoli del solerte maestro corsero il rischio di ubriacarsi, senza aver bevuto un goccio di vino, per le esalazioni del vino misto alla calce bollente. La mattina don Francesco Saverio Figliolia, quando si portò alle sue finestre, rimase di stucco: il suo sguardo non poteva più spaziare su una parte del Piano delle Fosse. Sicuramente andò in escandescenze, ma purtroppo dovette arrendersi all'evidenza dei fatti e forse maledire, sino alla fine dei suoi giorni, quel palazzo a due piani, largo di facciata e stretto di fianchi. Anche la gente rimase stupita ed incredula e, quando seppe che la calce di quel palazzo era stata impastata col vino, chiamò lo stabile: "A case 'mbriache". Con la costruzione del Silos a Porta Manfredonia, le fosse per la conservazione del frumento non ebbero più ragione di esistere e tutta quell'area da esse occupata, comprese le povere case dei terrazzani e la "casa ubriaca", che era sorta intorno al 1850,venne utilizzata per la costruzione di nuovi complessi edili.
da Foggia nostra figure e fatti, 1980
TARALLUZZE E VINE
Un tempo, per festeggiare degnamente la Pasqua o il Natale, le nostre donne, oltre ai dolci tradizionali, che per il Natale erano "i cartellate, i schiarole, i strufele, i calzuncielle, i purcelluzze, i mustacciule, i menele atterrate, ecc." e per la Pasqua "a pizze ck'a recotte, i taralle ck'u naspre e i squarcelle", preparavano "i taralle cke l’'ove (le ciambelle con le uova). Per la preparazione delle ciambelle, per un chilo di farina, occorrevano sei uova, g. 100 di strutto, g.50 di lievito, g.250 di zucchero e latte sufficiente per l'impasto. Dalla pasta, sapientemente lavorata, si ricavavano delle ciambelle, che venivano cotte in forno a temperatura non tanto elevata. "I taralle che l'ove" erano maggiormente gustosi se accompagnati dal rosolio, liquore dolce e poco alcoolico, o dal vino dolce. Per le altre occasioni (onomastico, compleanno, battesimo, comunione, cresima, fidanzamento, matrimonio), una qualsiasi da festeggiare e ricordare, oltre alle pastarelle (paste dolci fatte in casa), le nostre donne preparavano "i scavedatille" (ciambelle, senza uova, infornate dopo essere state lessate). Per prepararli, per un chilo di farina, occorrevano g. 50 di lievito, g. 300 di olio di oliva, g. 80 di semi di finocchio, sale e pepe. Con la farina, il lievito e l'acqua, nella quale era stato diluito un pizzico di sale, le nostre donne facevano una pasta come quella del pane e poi, un po alla volta, aggiungevano l'olio, il pepe ed i semi di finocchio. Dalla pasta ricavavano dei bastoncini lunghi e sottili che trasformavano in ciambelle, le quali, dopo essere state a riposo una ventina di minuti, venivano calate per pochi secondi nell'acqua bollente, indi lasciate ad asciugare su un telo ed infine cotte in forno a temperatura elevata. Le ciambelle erano chiamate “scavedatille” perche prima di essere cotte in forno, venivano “scavedate” (riscaldate, lessate) nell'acqua bollente. "I scevedatille" venivano sempre accompagnati dal vino rosato e, siccome erano offerti al termine della festa, quando qualcuno il giorno seguente la commentava soleva concludere: "A feste eje fernute a taralluzze e vine" (la festa si e lietamente conclusa con ciambelle e vino).
LE PROVVISTE PER L'INVERNO
Dopo il Ferragosto, le nostre donne si danno un gran da fare a comprare e conservare, nell'aceto o nell'olio, peperoni, fagiolini, cetrioli, melanzane, capperi, cipolline, carote e tante altre cose che la buona terra offre durante l'ultimo scorcio dell'estate. Assieme a queste leccornie e alle conserve di frutta, preparano anche la salsa di pomodori per condire durante l'anno la pastasciutta. È un lavoro che eseguono volentieri perchè le attrezzature moderne -passapomodori elettrico e tappabottiglie a chiusura ermetica - agevolano il compito. Un tempo era più faticoso perchè i pomodori si passavano al setaccio e le bottiglie venivano chiuse col turacciolo di sughero che, dopo essere stato unto nell'olio e pressato da una macchinetta di legno, era legato in croce con lo spago. Alcuni decenni or sono, le nostre massaie, oltre alla salsa di pomodori, preparavano anche la "conserva" di pomodori. Si vedevano allora, accanto all'ingresso delle abitazioni, sui parapetti delle terrazze e dei balconi, grandi piatti di terracotta smaltata, detti "vacelotti ", contenenti salsa di pomodori, che spesso veniva rivoltata con un cucchiaio di legno affinchè non bruciasse al sole. I piatti venivano ritirati la sera e, durante i giorni, quando il tempo era cattivo. Enormi e candidi veli, disposti sui piatti, proteggevano dalla polvere e dagl'insetti la "conserva", la quale, quando si condensava, veniva ritirata, collocata in vasetti di terracotta smaltata o di vetro e ricoperta d'olio d'oliva. Per le nostre donne, preparare le provviste per l'inverno, è sempre stata una fatica gioiosa, compensata dal piacere di aver risparmiato sulla spesa, dalla soddisfazione di vedere allineati sulle mensole barattoli ricolmi di cose buone, dalla certezza che non contengono conservanti e coloranti.
Zechille
Molto nota al grosso pubblico foggiano era la bonaria figura di "Zechille" al secolo de Tinno Michele, il quale con addosso una bisunta marsina e sul capo un consunto cilindro, si guadagnava da vivere cantando per la strada i motivi in voga, accompagnandosi con uno scordato pianino o con una chitarra con poche corde.
Di bassa statura, robusto e di carattere remissivo, non se la prendeva con la cattiva sorte che lo perseguitava, accettava l'elemosina e non disdegnava la cicca quando gli veniva offerta.
Lo si vedeva spesso protagonista alle manifestazioni cittadine in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie, di S. Anna, di S. Gaetano, della SS.ma Maria dei Sette Veli o Ferragosto, quando l'organizzazione contemplava, tra l'altro, la disputa di qualche palio.
Non partecipava mai a quello dei sacchi, perchè era riservato ai giovani contadini del rione in cui si svolgeva la festa, la quale richiamava molti curiosi che si divertivano nel vedere le capriole dei partecipanti alla gara, e neanche a quello della cuccagna, o del palo insaponato, dove il concorrente, una volta raggiunta la sommità raccoglieva il premio che spesso consisteva in un grosso prosciutto, un paio di caciocavalli, polli ed altro.
Era sempre presente invece a quello dei maccheroni, che si svolgeva su di un palco affinchè tutti potessero osservare e divertirsi e dove i contendenti - non più di tre e scelti tra i più noti mangioni locali - gareggiavano a chi per prima, senza bere un goccio d'acqua e senza usare forchetta o mani, riusciva a terminare un enorme piatto di maccheroni, le così dette "pizzarelle", lavorati in casa e conditi con ragù e ricotta salata, oppure gli spaghetti.
Qualche volta lo si è visto anche, con altre figure caratteristiche locali, impegnato a staccare con i denti una moneta che, precedentemente, era stata affissa sotto una caldaia cosparsa di nerofumo.
Durante la sua esibizione, i cittadini si divertivano molto nel vedere il viso di "Zechille" sporco di fuliggine.
Nella sua vita è stato benvoluto da tutti e perciò, giunto nell'età senile, la carità pubblica pensò di dargli un tetto e lo affidò alle amorevoli cure dell'Opera Pia "Maria Grazia Barone".
Egli, però, abituato a vivere per la strada, trovò l'Opera un luogo di costrizione, una prigione, e, dopo qualche mese, tornò al suo vecchio amore: la strada, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Il de Tinno Michele, che era nato a Foggia il 5 gennaio 1900 da Francesco e da Iannicello Raffaela, morì nei locali degli Ospedali Riuniti il 2 gennaio 1969 e la gente che lo aveva conosciuto, amato e deriso, quando lo seppe, pianse sincere lacrime di dolore.
I fratelli Leone, noti e stimati commercianti locali, che molte volte avevano fotografato il de Tinno, ovvero "Zechille", durantele pubbliche esibizioni, a proprie spese, vollero annunziarne la dipartita facendo affiggere per la città manifesti listati.
Fu un atto d'amore al povero "Zechille" che, ancora oggi, a distanza di dieci anni dalla morte, vive nel cuore di quanti lo conobbero.
Marano Urbano
da "Foggia nostra - figure e fatti-"