Giuseppe Lo Campo

(Foggia 1863 - Albano Laziale 1935)

FOGGIA E LA QUESTIONE DIALETTALE
CON APPENDICE


Nella mania dialettale che qui ha disgraziatamente fatto dar la volta al cervello a qualcuno, mentre in ogni angolo d'Italia lo studio del dialetto si coltiva con trasporto e profitto, era oramai tempo che anch' io, umile cultore degli studi classici, me ne fossi un tantino occupato, e perchè tal questione non è tanto liscia come a prima giunta la si presenti agli inesperti, e perché dagli scarsi tentativi, fatti in mezzo a noi, alcuni non son riusciti a cavar un ragno dal buco, altri più che spazzare la via agli studiosi l' hanno riempita di sterpi e pruni.
Volendo adunque nell' interesse della scienza e del paese porre le cose a posto, è mestieri innanzi tutto accennare all' importanza filologica, letteraria e storica dello studio dialettale in Italia, indi discutere il modo come Foggia vi ha risposto, ed in caso la risposta lasci qualcosa a desiderare, mostrar col fatto come uno studio del nostro idioma si può agevolmente tentare.

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La questione dialettale in Italia, ognun sa, non è sorta ieri; è antica forse più dell' istesso concetto dell' unità nazionale, e come tutti i problemi dello spirito e dell' arte, anch' essa ora si è fatta viva ed ora si è assopita, secondo l'han permesso le gravi condizioni politiche, morali ed intellettuali, in cui per molti anni ha versata la nostra povera e lacerata penisola.
I nostri antichi scrittori, chi più chi meno felicemente, han tentato di rompere una lancia in questo agone, ed i loro sforzi se non altro spianarono il terreno ai successori del secolo che tramonta. Se non che questi studi dovevano avere un più largo sviluppo, assumere proporzioni più vaste, in fine dovevano altrove elevarsi a sistema scientifico. La prima parola, come sempre, partì da un italiano, e per giunta da un napolitano: e la parola del Vico, non intesa nè compresa dai nostri, fu seme d'una nuova scienza in Germania, dove, iniziati fin dal 1784 lo studio del sanscritto, si raggrupparono e classificarono, sotto norme e leggi costanti, le lingue antiche e moderne; in modo che Federico Augusto Wolff, primus philologiae studiosus, potè senza difficoltà gittar le basi della nuova critica fìlologica, pubblicando i Prolegomeni di Omero.
Sorta così la filologia, che a voler essere rigorosi risale, non come metodo scientifico ch' è esclusivo portato dell' età nostra, non pure al periodo alessandrino, in cui se ne determinò il concetto, ma più propriamente allo stesso Aristotele, fondatore di studi grammaticali e letterarii e scrittore d'una rettorica e d'una poetica, quasi tutti i nostri grandi,,,,,,,

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ed alle volte consistono in sciorre dubbi, indovinelli come: ascenn' rirenn', e anghjan' chjagnenn'. Nella prima parte adunque si sente tutta un'ondata di fresca poesia popolare; nell'altra all' incontro abbiamo una prosa sesquipedale, senza uno slancio di poesia, appunto perchè non v'è sentimento che è l'anima d'ogni componimento poetico. Il dialettologo non vorrebbe far altro che descrivere le scene, le quali si succedono dopo il suono di un' ora di notte; ma anche la descrizione è scialba, fredda, monotona, grottesca, senza vivacità d'immagini e senza colorito, perchè vi manca il soffio potente dell' arte che dipinge, crea, vivifica.
O forse, nella tenebria di una sera invernale, la povera ciucrejare che come un'ombra disperata vagola, lei giovane e bella, assiderata dal freddo, per le deserte vie della città, non ha un cuore che batte, che freme, che sanguina, pensando alla mamma malata, senza fuoco e senza pane, o al suo marmocchio addormentato su pochi e luridi cenci in un' umida, oscura stamberga? Eh!, si che la materia era ampia e e duttile, ma la mano inesperta! Ma si è stolti in esigere l'osservanza del noto precetto oraziano « Sumite materiam vestris ... aequam Viribus etc: » se si osserva che l'autore vorrebbe financo far passare per ritornello la voce che dà ogni fruttivendolo od ogn'altro venditore per spacciare la propria merce, ed è poco o niente conoscitore dell'arte del verseggiare. Nei citati versi in fatti si notano alla rinfusa, e per giunta senza rime od assonanze che si siano, nella stessa strofa novenari, ottonari, settenari e per fino senari, con una abbondanza ora di vocali come l'eolico, ora di consonanti come il tedesco. Che stonatura in questi due versi che pur dovrebbero rimare tra loro ed avere un numero eguale di sillabe:
E li guagliune lore
Lucculejn' i cozzla chiene?
Corresse almeno la grafia! C'è un chine chine funecchielle che attende un de innanzi a funecchielle e poi un j accanto all' i di chine, perché altro è chine per chino, chinato, curvo, altro in dialetto è chijne per pieno, colmo, che qui cade in acconcio. Se il dialettologo, come chiaramente si vede, è digiuno, non solo d'ogni regola d'arte, ma delle nozioni più elementari di metrica, di ritmo e di grafia, qual testardaggine è la sua in voler mandare a spasso le sue insulsaggini? E non, è forse il caso di ricordargli col Menzini il celebre: chi ti forza a giacere? Se dunque i nostri studi dialettali pigliavano questa brutta piega, non era questo il caso di uscire dal silenzio che mi avevo imposto?
Vero è che non è molto si san pubblicati un paio di sonetti dialettali col pseudonimo di « na crucesella » e l'autrice che, a quanto pare, debba essere una signorina, si scosta molto dal dialettologo, anzi lo vince a dirittura. Eccone una prova:
A cocchi’ a cocchia - na precessione
Cantanno de li Santi l’altanija
Cu fanguttiello mbrazz’ e c’ ‘u bastone
Mo vace all’Ingurnat’ a cumpagnia.
Quanta naturalezza e verosimiglianza in questa descrizione che procede gradatamente fino a farci poi vedere parte della compagnia che, giunta al ponte, ‘U riesto face scauze de la via: indi dopo aver fatto i tre turnielli di rito, tutti insieme i pellegrini entrano divotamente in Chiesa, dove osservano nu struppialtiello che strascin’ à lenga. E qual foggiano non ha assistito ad una di queste commoventi e strazianti scene di una fede cieca, smisurata, senza ambage ed ostentazione? Quale stretta non proviamo innanzi ad una tale descrizione che forse e senza forse ci ricorda uno dei più bei momenti delle nostra fragile esistenza? E tutto questo la crucesella ci narra e descrive in un sonettuccio senza pretenzioni, in cui però la nota predominante è quella del sentimento, della fede viva, sincera e profonda non illanguidita dal gelido soffio della miscredenza.
Laonde più che sciupare tempo ed inchiostro nella soluzione di sciarade filologiche ed in arzigogoli più o meno poetici, è utile e necessario studiare la vita del popolo, narrarla in buona prosa e raccogliere le parole ed i motti che ogni dì suonano sulle labbra del volgo: lavoro proficuo e tutt'altro che umile, richiedente grande pazienza ed accuratezza, ed un bell'esempio ce l'ha dato ultimamente un amico carissimo, il dottor Domenico Sassi, sui canti erotici del popolo martinese. Il Sassi solamente raccoglie, scrive, spiega, dilucida ; non insegna, nè canta: il perchè non v'è chi non ammiri, a parte la modestia dell'autore, la bellezza e la vivacità del popolo martinese, sia che l'amante non riamato canti, sinistro augello, la propria sorte innanzi ad una donna che non ha una parola di conforto e di speranza:
La neva me sarrà freddo lenzuolo
E l'uocchie to faranno da cannile;
sia che l'innamorata con gentil pensiero si rivolge alla colomba, candida come la sua innocenza, e l'esorta a prender parte al suo intenso affetto col permetterle strappi na pennuccia sola, perché deve scrivere nà lettrecella al suo amore, lettrecella che vorrebbe stampare col proprio sangue e metterci per suggello il proprio cuore. Questo solo fa il Sassi; ma non avrebbe potuto lui che pur si mostra gran conoscitore del suo dialetto, scrivere qualcosa in martinese? Sì per fermo, eppure ei si è accontentato solo di riportare le canzoni del suo paese nè più nè meno; nè è stato preso dalla febbre di voler fare una letteratura del suo dialetto che pur ha tanta dovizia d'immagini e di frasi.

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Conosciuta adunque l'importanza di questi studi dialettali ed il loro risveglio in ogni lembo d'Italia, e, viste fallite le prime prove qui tentate, quel che ci resta a fare, è primieramente l'accingerci alla compilazione di un nostro folk-lore che sarà la base, su cui con l'andar degli anni si potrà fondare un lavoro storico, filologico, letterario. Lungo sarebbe il mio compito, se oltre le tradizioni, superstizioni e leggende, volessi riportare i canti, i proverbi, le frasi, gl'indovinelli che possiede il nostro popolo per tutte le circostanze della vita.
È pregio dell' opera darne un breve saggio, che sarà come d'impulso a tutti coloro che vorranno dedicarsi a questi studi. Ciò che innanzi tutto mi fa proprio pena, è che quasi tutte le composizioni di questo genere, in alcune delle quali si osservano financo evidenti tracce spagnuole, abbandonate da parecchie centinaia di anni esclusivamente al popolo, ci sono giunte incomplete, dimezzate, confuse: e se dietro ricerche, indagini e confronti si riesce alle volte a porvi un pò di ordine metrico, grammaticale e logico, quasi sempre però il componimento non è intero. Quello che è innegabile, è che in ogni brano, in ogni espressione, in ogni frase ci è sempre vivacità di fantasia, concisione, proprietà, colorito, sentimento, poesia e spesso spesso una fine arguzia che riflette direttamente l'indole per lo più ironica del popolo.
Quanto affetto, che slancio mirabile di lirica non vi è nei versi che la mamma a sera nella fantastica penombra, che proietta la lampada accesa innanzi alla Madonna, dondolando la cuna, canterella per conciliare il sonno al suo angioletto tra un nimbo di rosei veli? Il Giusti in quel gioiello di lirica che è «Affetti di una madre» a rapide tinte descrive i palpiti, le ansie, i timori, le speranze, l'estasi del cuore materno innanzi al suo fulvo bambino addormentato. É il tipo classico. Il De Giacomo nel Duorme Ninno mette in bocca della madre :
Scennìte, Angiule, a cielo a tenè mente.
St'angiulo suonne d'angiule se sonna
E duorme, figlio mio, nnucentamente
Fa nonna nonna ... Ah!
Innanzi alla fantasia napoletana il bambino appare un angelo che fa sogni di angeli e desta anche un pò d'invidia agli angeli stessi. Ben diversa è la Ninna-nanna calabrese, già in patrimonio della Rivista delle Tradizioni popolari italiane. (An. I, Fasc. II). - La madre cosentina canta al suo pargoletto:
Duormi, gioiuzza mia, duormi e riposa,
e gli rivolge i nomi più cari, come uortu di igli (gigli), sipala (siepe) di rosi, catina d’oru, mazzu d'amenta, fontana di li petri priziusi.
Le nostre madri invece non che appellarci coi nomi più cari, come quelli di angeli e di fiori, nella loro Ninna-nanna, dopo la rituale invocazione al Sonno;
Vien' a cavall' a nu cavall’ janco
Co' a sella d'or' e la vriglia d'argiento,
ci augurano tutto ciò che una madre tenera, appassionata possa desiderare pel suo innocente bambinello; ci augurano ogni bene, ogni felicità, in una parola tutta l'età dell' oro. E se gli antichi dicevano essere questo il tempo, in cui i fiumi scorrevano latte, la madre foggiana canta:
Vurrija che chiuvesse maccarune
E na muntagna di caso grattato
Li prete de la via carn’arrustuta;
L'acqua de lu mare vin' annevato.
In mezzo a tanto ben di Dio poi il suo garufalo addurente, core de la mamma, deve abitare, un
Palazzo di giujlli frabbicato
E ntunacato di curalli fin,
I pedamenti d'oro martinato
E a finestrell’ a stella matutin’
Il genio del male poi che soffia sempre sinistramente dove ci è pace, gioia e contentezza, non deve turbare l'incanto di questo augurio, non rompere il miraggio di tanta felicità; quindi è che la buona mamma, la quale già presagisce l'accostarsi di questo mostro crudele «u papone» in atto di minaccia gli grida a più riprese:
Vattinn', papone, da sott’ u lietto,
Ca mo ti mengo nu matone ‘mpietto.
È tutta dunque l'età dell'oro e noi del napoletano più degli altri intendiamo e sappiamo darei ragione di queste metafore sì ardite che arieggiano senza fallo quelle del seicento.

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E sorvolando sulle parecchie centinaia d'indovinelli che alle volte sono equivoci e piccanti, ed alle volte ingegnosi e geniali come:
Duj' lucent’ duj' pungent'
Nu scupulu e quatte mazze

per indicare la vacca e:
sopa nu muntunciello
stace nu vicchiarillo
Ca cu nu dente
chiama 'a gente,

volendo intendere la campana, una fonte inesausta di forte e vera lirica noi vi scorgiamo nelle poesie erotiche. Le passioni che predominano nelle masse popolari sono al certo le più potenti, le più veementi; l'amore e l'odio ... Quando l'odio è effetto del tradimento in fatti d'amore, allora la poesia prende una forma aggressiva, e non solo si giunge a frangere, ma anche a calpestare l'idolo del cuore. Allora nella forza smodata della passione l’imaginativa corre, corre fino al più alto tradimento della Storia della Umanità e ci strazia l'animo una canzone che, diretta a donna infame e crudele, incomincia:
Facist' cumm’ e Giuda
Tradirmi accussi.
Una forma poi assai più mite assume l'odio, quando scaturisce dalla gelosia: allora ha luogo una sottile ironia che canciando spesso in sarcasmo riflette a puntino la nota caratteristica del pugliese, onde il Poeta ebbe ad esclamare:
Sempre mordace fu lingua pugliese.
A questo spirito ironico che ci fa ricordare l'humor degl'inglesi più che la verve dei francesi, risponde un componimento che si canta con un certo tuono canzonatorio, in modo che la musica pesante, cadenzata, monotona ne imiti, come sempre, esattamente i' indole e l’intonatura non altrimenti che la musica moderna. Eccovene la tela.
Ognun sa che matrigna e figliastra non vanno mai d'accordo: ora capita che l'una, affetta da gelosia, si trovi a tessere al vicinato l'elogio sia fisico che morale dell'altra: ce ne dice d'ogni colore e sapore: in breve è un vero torrente d'insolenze che vomitate con un tal garbo hanno tutta l'aria di sembrare colpi di spilli, mentre in fondo in fondo non sono che punture di un pugnale avvelenato.
La matrigna adunque esordisce col rivolgersi ai giovanotti dicendo:
Vui v'avite d'anzurà
E pigliarvi la mia figlia
Ch'è l'ottava maraviglia.
A me davvero non è riuscito rintracciare quali siano le altre sette maraviglie, cui allude la canzone, ma è certo si tratta di belle e vere meraviglie mondiali, mentre il sarcasmo c'è nell'ottava non altrimenti che nel dolce nome di figlia che suona così amaramente, quando i versi che seguono, sono:
E currit’ a cient' a ciento
Ca si no s' a port’ u viento.
Oh, vijat' a chi s'a piglia
Questa figlia, questa figlia.
Ora la matrigna incomincia a dipingere a fosche tinte le bellezze della sua figlia ed esclama;
si vidit' a pulizia
Ca si face a figlia mia:
Non si lava lu Natale,
Manc' ai fisti, a Carnevale;
Ten' a l'uocchi li scazzilli,
Ten' u nas' a picurilli,
Lu fiato, uh che diletto!
Fete chiù di nu cascetto.
E prosegue con un esilarante crescendo:
Vu' vidè quant' è garbata ?
La mia figlia è na pupata,
E lu rist' è tutta bella;
Ma è nu poco sgubatella,
Men' i gamm' a chiricò
E cammin' a si e no.
Sempre di questo passo, di sorpresa in sorpresa si passa all'etopea ; che pennellate magistrali! udite:
Ten' a u liett' u tron’ a quatto
E si colc' a vintiquatto,
Po si gaviz' al'auto jurno;
Quann' è justo mizzijuorno;
Si vutava e s’aggirava
Quann l'attana la chiamava.
Sicché questo bel tipo di ragazza potrà essere senza dubbio una buona massaia, perché
Maj veve e maj magna,
Lu marito assai sparagna:
Duj tumul' di gran'
N' l'avastan' a setteman’;
Nu vrrrilo sola sola
Na jurnata se l'ungola.
Della laboriosità non è a parlarne, figuratevi
La mia figlia è virtuvosa,
Essa taglia, essa cosa:
E pi fa doie cammise
Stij n' ann' e sette mise.
E pi fa nu sciucapanno
Essa stii 'mpunto n'anno.
Enumerati questi ed altri pregi fisici e morali, la canzone termina col noto ironico ritornello.
Oh vijat ' à chi sa piglia
Questa figlia, questa figlia!

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Tutt' altrimenti poi si esprime l'amore: oltre alle metafore azzardate, alle similitudini ardite, ai pensieri gentili e delicati, la nota predominante è l'affetto verace, tenero, sincero, appassionato, profondo, da cui sgorga una lirica forte, potente, gagliarda. Vero è che s'ingannerebbe a partito chi credesse il nostro popolano aggiusti ciecamente fede alla prima donna, in cui s'imbatta: egli come un cane da punta fiuta e, se quella donna è bella ed agiata, ma vanitosa e civettuola, passa oltre, gittandole addosso uno sguardo compassionevole, un sorriso spezzante, una canzone mordace. Ecco la genesi della Ricciutella: 

Guei li, guei là 
So dijavli i femminà 
Ca si mèttin' i pezze mpitt 
Pi gabbar' a l'uominà. 
Ma pò l'umin' se' chiù dritti 
Non si fann' mpapucchià; 
Calano subt' i man' impitt' 
Pi vidè cosa ci stà. 

Se non che con una di queste donne bellocce e ricciutelle si può anche passare gaiamente un buon quarto d'ora, azzardare una frase dubbia e prender via qualche licenza; quindi: 

Guei Rachel', guei Rachele, 
Damm nu poc' a tabbacchèra 
Quand' mi pigghi 'a pizzicata; 
Non dicenn' ch'è peccato 
E lu rist' u dac' a te. 

Ma questo non è amore, non è passione, bensì certa leggerezza da una parte e certa sventatezza dall'altra; in tutto un po' di perditempo, di spasso, nient'altro. Quando l'amore invece ha messo salde radici, allora vediamo l'amante che a tarda sera 
va a svelare, sotto l'infiorata finestra della sua nenna, l'affanno che gli travaglia l'anima e soavemente come ad innocente bambina le canta la ninna-nanna: 

Nenna nenna che duorm' e non sai 
Quanta pen' a stu core mi dai, 
Tu fai la ninna, ninnella mia, 
La ninna-nonna ti vogghi' canta. 

Indi prosegue dicendo che la bellezza di lei, maggiore di quella di una stella, l'ha innamorato, i raggi del sole sono i raggi di tanta bellezza; egli l'ama, e quest'amore è un bene ed un tormento insieme, egli l'ama ma non sa se sarà corrisposto: ad ogni modo nutre una lontana speranza di farla sua: 

Lu tiemp' e nuvolo, sta p' asci la luna 
E si lu cielo mi dà furtuna 
Quanta pazzia ch' avima' a fà. 

L'ora è già tardi ed egli ha qualcosa d'importante da susurrarle all'orecchio, qualche segreto da svelarle a quattr'occhi: 

Fa priesto, nenna mia, e non tardare) 
Apri la porta ca t'agghia parlà. 

Ma qual sara mai il suo segreto? Oh, è il sogno più fulgido per una fanciulla, l'ideale più vago per una ragazza, la proposta d'un matrimonio. Questo progetto che gli fa già intravedere, come attraverso un velo diafano, una sera, in cui vi saranno: 

che festino, nenna mia, suoni e canti, 

fa si ch' egli sopporti con santa rassegnazione le pene, i guai ed il martirio di doverla vedere di tanto in tanto, e che trovi in sè stesso un certo conforto, perchè. 

Solo di pena, nenna, non si more.

Ora invece è lei, l'innamorata, che affida all'aure amiche il segreto del suo animo: 

Povra vita di nenna 
La rott'a lu sirene: 
Lu sangu inta li vene 
D' inta u pitto 'u sent' asci. 

Ma perché questa donna passa vigile le notti intere all'aperto sfidando le pungenti brezze? Perchè si sente sgorgare dal petto il sangue delle vene? 
Oh, ecco; essa con mirabile reticenza e con frasi scultorie non tarda a dipingerci i pregi dell'amante, innanzi ai quali la povera donna non seppe, nè potè resistere: 

La vita tonna tonna 
U pitt' a palummillo. 
Ucchi di mariuncillo, 
Hai arrubat' u core a me. 

Se egli le ha rubato il cuore, ella ora vorrebbe rubarsi tutto lui e per riuscirvi nell' intento, gli domanda se conosca l'arte che insegni a fare all'amore, giacché essa infelice vorrebbe apprenderla per farsi amare e per sempre: 

Addumannar ti vurrja 
Come si face l'amore; 
I' pi te, ninno, mi more. 
Spero che ti agghia spusà. 

Il pensiero dominante è sempre quello del matrimonio, e lei incauta se l'ha fatto  inconsciamente sfuggire: un senso di pudore quindi l'assale, la confonde, ma poscia si fa animo, perché l'amore le suggerisce una bella idea, ed ella scongiura il suo ninno ad esaminar sè stesso, per vedere se in realtà ha in petto qualcosa non sua, il cuore che con gli occhi mariuncielli le ha rubato:

Vurrija.... ma che vurrija ! 
Vurrìja ca tu m'amassi 
E u core t' 'u pigliassi 
Vi' ca mpietto l'hai 'a tenè.

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Ma o perché Socrate disse che la divinità ha attaccato all'istessa catena il piacere ed il dolore, o perché l'amore, come ha scritto un romanziere francese, ha la natura della grandine che non cade se non nel temporale, spesso spesso, ora per un malinteso ora per un capriccio, l'armonia fra gli amanti si spezza, e quindi vengon su le bizze, i dispettucci, i litigi che tal fiata si compongono alla meglio, tal altra prendono una forma acuta, se un terzo che da un pezzo stava a spiar le loro mosse, carpito il momento opportuno, destramente riesce a farsi innanzi. Anche però in questo caso, se l'amore è sicuro e verace, tutti gli ostacoli si superano, ricorrendosi in fin dei conti all'ingegnoso episodio della fuga, e così i vigili parenti e l'importuno cascante rimangono scornati; ma se all' incontro l'uno di essi cede all'impulso d'una nuova passione, allora nasce l'antipatia, l'abbandono, l'odio, mentre l'altro che si dimena fra le spire del tradimento e della disperazione, se ha del fegato, uomo o donna che si sia, ricorre al pugnale; in tal caso la catastrofe è inevitabile e la vendetta si compie. 
Solo in tal guisa si potrà intendere, perché molte volte l'amante canta: 

I' da qua non me ne vaco 
Si non ti vedo affaccià. 

Egli vuole che la sua nenna ad ogni costo appaia nel fondo buio della finestra per rassicurargli che la pace è bella e fatta. La ragione di questa insistenza è da trovarsi al certo nel fatto che: 

Ma mi sarà mpussibile 
Scurdarmi d' st' amore, 

perchè oramai uno stesso destino li lega: 

Tu m'è ferito, stu core 
Nè ti pozzo abbandunà;
 
se non quando 

spusaremo tutt'e duj ncumpagnia. 

C'è però anche il rovescio della medaglia: c'è la Disprata che viene cantata sempre da una donna accompagnata dal suono d'una sola chitarra. Il titolo della canzone è assai eloquente per indicarne il contenuto. É una giovane donna che, tradita dall'innamorato, sfoga tutta la piena del suo affanno, canta, freme, piange e si dispera. 

Disprata è la catarra e chi la sona, 
Disprate so' li corde ad una ad una 
Disprata è quell' amante che sta sola. 

Le fiamme edaci della gelosia l'avviluppano, la foga della passione l' acceca e la disgraziata tra le lagrime ed i fremiti canta: 

Non t'avantare chiù che m' hai lassata, 
Cè n'aggi' avuto gusto e pijacere: 
I' n'ato bello ninno m'aggi truvato, 
Chiù bello e chiù galante assai di vui. 
Si vu' sapè lu nome.... iss' si chiama.... 
Tene lu stesso nome com' e 'u tui.
 
Ma perché quest'abbandono crudele? Chi mai ha potuto indurre quest'uomo ch'era felice dell'amore di lei, bella quanto la stessa Diana? Ah, la sola causa che l'ha indotto al mal passo, è stato il denaro, il solo denaro che ha disgiunti e per sempre due cuori felici e però a lei bella, gentile e senza beni di fortuna non resta che il suicidio ed essa solo per uccidersi è venuta nel più profondo della notte a cantar sotto le finestre di chi l'ha abbandonata: 

Ma vit' quant' fanno li dinare, 
Fanno scucchià sti  dui fìlici core, 

Tu c' hai lassat' 'a tua stella Diana, 
Ti si ghiut' a pigghià na donna 'e fora;
Affacciat' affaccit' e sentirai cantare.... 
Ti voglio fa' vedè come si more! 

La povera infelice non dubita un solo istante nel troncarsi l'esistenza, col suo amore tutto per lei è finito, l'idea fissa, dominante è quella del suicidio, del togliersi la vita proprio sotto gli occhi di lui. 
In tanta disperazione però unico conforto è solo il pensiero che in sull'albeggiare al lugubre suono delle campane e al flebile e lamentevole mormorio delle pietose voci, egli forse correrà al verone, vedrà lei stesa con le braccia in croce su funerea bara, e 
mentre il popolo griderà: è morta chi t'amava, forse ne sentirà pietà, rimorso: 

Morire ! E morirò non dubitare 
Che non la sint' chiù st'afflitta voce... 
All'alba chiara mi vedrai passare 
Sopa la vara ch' li vrazz' in croce: 
Tu li campane sentirai sunare 
Cu nu lamiento e na pectosa voce, 
Tutto lu poplo sintarrai gridare: 
È morta chi t'amava... quest' è la croce! 

La poesia e la musica in questa canzone è tutto un insieme di singulti compressi, di grida strazianti, di gemiti e di spasimi, ond'è difficile, se non proprio impossibile, poter intendere un sol verso di questo componimento che a notte profonda si canta 
con tanta passione da farci provare una forte stretta al cuore. Sicchè ora la parola ha un lungo strascico, ora muore nella gorga, ora si spezza sulle labbra, e noi ci commoviamo innanzi a questo cuore infranto, innanzi a questa donna tradita ed abbandonata, cui l'ultima speranza che resta, è la fredda lama d'un pugnale. 
Non di rado però accade che tra una strofa e l'altra un villanzone, attratto dalla serenata a fermarsi, gitti ruvidamente una frase che, mentre ha l'aria di sembrare un tratto di spirito, è l'epifonema del romanzo compiuto d'un' anima spezzata, l'ultimo palpito d' una esistenza attossicata, l'estremo gemito d' un' altra vittima dell'amore, 

Uh, mamma, quill' ha da essere! 

E poichè quegli, proprio quegli, non può più esser suo, ella sfoga la sua passione, il suo crucio, il suo tormento, la sua disperazione e si uccide.

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* *

Volendo poi dalla poesia erotica, di cui questi non sono che pochi saggi, passare alla bernesca, è chiaro come un popolo, dotato di sì vivace immaginazione e di sì gran sentimento, non può fare a meno di sentirsi poeta eziandio tra i fumi delle bevande ed il tintinnio dei calici. Di brindisi ve ne sono e ad ufo; nè qui certamente s'intende alludere a quei distici che con due rime ad orecchio o per sola assonanza si sogliono improvvisare su due piedi, o quando si è tra amici per una bicchierata, o quando si è brilli, sebbene anche tra quelli ve ne siano non pochi da trascurarsi, come: 

L' arvel' è dritto, la vite è storta, 
Chi dice male d' lu vino, merita la morte 

E poi: 

Stu vino è bell' e galante 
Alla salute di tutti quante,

Indi: 

Chirieleison, cristeleisonne
 A la salute di l' uomne a la faccia di li donne 

E finalmente l'invitato a farsi un bicchiere, volendo mostrarsi superiore agli amici tanto gentili, dice: 

Prima di veve ci fozzo lu patto 
A tal, non mi dicite vocca apirto, 
'U vino mi vevo, u bucchiro vi sbatto, 
Me ne vaco e ne vi stac' assuggetto. 

Vi sono brindisi belli e studiati, alcuni dei quali hanno un' intonazione religiosa, altri erotica ed altri epicurea. 
Ne pubblico parecchi: 

Sangue gintile, prizijuse e fne
l'ha crijato Gesù colli sui mani;
Messa non si po' dice' la matine. 
Non si po' senza vine cunzagrare: 
Prima di veve' lu previte spunte, 
Dicenn' di lor signure alla salute.
 
Quasi simile a questo, solo nei primi due versi è il seguénte che del resto se ne allontana del tutto; peccato però che non mi è riuscito averlo intero, tanto più che si tratta di nozze: 

Sangue gintile, prezijuse e fine 
Binedetto Nuvè che t' ha criato; 
Chè ti passa a secca e l'appetito 
E chi si fida non resti ingannato. 
.   .   .   .  .   .   .   .  .   .   .   .   .   .   .    
Io mo piggh' u bucchiro e po' lu poso 
Saluto prim' a zita e po' lu sposo. 

Un giovane invece non bada alla generosità e necessità del vino, non benedice Noè che ne fo l'inventore, ma togliendo occasione dal vino, in vece di brindare, racconta un'avventura amorosa, un incontro fortunato, enumera i pregi di questa donna che gli è apparsa quale una luminosa visione e si culla nel miraggio d'una felicità avvenire:

Saccio la sposa, ma non saccio' a casa; 
Si non m' l'ambàro non ci riposa; 
steva sotta n' àrvilo di cirasa, 
Steva janca e roscia comm'na rosa, 
Io li dicij, nenna, dammi nu vaso; 
Essa dicij, 'nta pozzo dà sta cosa 
Quanno jam' a la chiesa a dà parola, 
Tanno sarai patrone d'ogni cosa. 

Una descrizione più minuta di questa donna si trova in quest'altro brindisi che senza fallo è d' origine remota: 

Trament' ascev' u sole alla campagna, 
P' cumbnazione acchiai na bella donna,
Era capilli ricci e faccia tonna 
Chiù janca d' la neve d'a muntagna;
Nmizz'a lu pitto suo so' doi chilonna
Una mena zucchere e l'ata manna, 
Si Dijo mi la dà sta bella donna, 
L' aggja da mantinè alle mie cumanna. 

Ed a proposito di brindisi non mi par giusto passar sotto silenzio quest'altro, con cui si cerca di consigliare i giovani a non cader nei lacci tesili delle vedove che in certo modo hanno fatto il loro tempo, quando vi sono delle vaghe donzelle, delle quali un sol bacio è da preferirsi a cento delle altre: 

Nu juorno mi magnai quatt' avulive 
Inta nu pijatto beni conzate, 
Tant' erano dolce e sapurite 
Anche li nuzle parevan nzuccherate: 
Voi, fìgliuli, ca non lu sapite 
Aprite l'uocchie quanno ve inzurate; 
Vale tanto nu vaso di na figliola zita 
Ca no ciento di na vedv' arraggiata. 

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E qui a dir il vero non potrei passar sotto silenzio una composizione caratteristica, intitolata La Parta: ma mi son proposto parlarne altrove ed ampiamente e per la sua stessa natura e varietà e per l'apparato ed originalità, con cui si recita, esclusivamente negli ultimi giorni del carnevale, meritando uno studio accurato e speciale, perché a mio modo di vedere, essa dalla foggia del vestire dei personaggi che vi prendono parte e da certe parole e frasi del tutto spagnuole, risale ad una lontana origine. 
E tanto per conchiudere, lungo sarebbe il mio compito se volessi così alla buona raccogliere e narrare tutto ciò che giornalmente si osserva a si ode dal popolo. Ora chi volesse fare uno studio proficuo, dovrebbe far tesoro di questo ben di Dio e diffondersi a parlare dei nostri usi e costumi, delle fiabe, degli aneddoti e primieramente della vita caratteristica di qualche nostro rione, come ad esempio li cruci, che di gran lunga differisce dagli altri, non solo in fatto di lingua e di costumanze, ma anche come tipo estetico, scendente forse in linea retta dal primitivo foggiano. Ed ecco senza volerlo sorgere una prima questione: quale dei dialetti è il foggiano? Che cosa rappresentano, a differenza dei carrittieri e de li scopari, i crucisi, questa specie di casta che non mai è uscita fuori la propria orbita, nè mai ha avuta tendenze ad espandersi e tanto meno a confondersi con i rioni affini? Esiste nelle Croci tutta una vita sui generis: i crucisi non ammettono che rarissimi incroci nei matrimoni e perciò formano tutti una estesa parentela che fa capo ad uno dei pochi ceppi principali, come i Carelli, i La Gatta e i Delli Carri: non conoscono miseria, né opulenza, nè castità, nè libertinaggio; vivono di tutto ciò che la madre comune, la Terra, loro offre in ogni stagione, fungi, lampasciuoli, pesce di jumara, cantatore e taragnole, alla cui caccia pochi vanno col fucile a stoppaccio, e molti con la valestra e con la luce e la campana, La loro né più né meno non è che una vita patriarcale, lavorando notte e giorno e dormendo l'estate financo innanzi alle loro aperte case, avendo per letto il nudo suolo e per tetto la volta azzurra dello stellato firmamento. In breve questa buona gente, fra la quale la mala vita ha nulla da reclutare, da secoli si mantiene sempre ligia alle avite trazioni, alla foggia caratteristica del vestire, alla fede primitiva e sincera che apprese dai suoi antenati e che inalterata insegna ai figli. 

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Riassumendo, dalle brevi considerazioni esposte su questa grave questione e dai rapidi cenni, buttati giù alla men peggio per un lavoro utile sul nostro idioma, mi sembra indispensabile da prima la compilazione del nostro folk-lore, indi d'un dizionario, il più che sia possibile completo, e d'un frasario, giacché noi ignoriamo quale dovizia di voci e frasi possiede il nostro popolo che spesso una sola idea esprime in cento modi, tant'è la potenza e la vivacità della sua immaginativa. 
Dopo questo accurato lavoro con le regole della filologia e non a casaccio solo si potranno studiare tutte le nostre forme dialettali ed assegnarne l'origine, giusta i canoni della scienza; indi mercè una minuta disamina di ricerche storiche mostrare se il nostro dialetto ha avuto o può avere una letteratura propria, e cosi l'opera nostra avrebbe un valore filologico, letterario e storico. Chi al contrario volesse fare tutt'altrimenti, oltre al procurare al nostro paese una nota non bella, cadrebbe nel ridicolo e peggio.
Molto adunque intorno al nostro dialetto si può fare e finora non si è tentato nulla, se ne togliamo i mostruosi tentativi del dialettologo, che di fronte ad una delle nostre poesie popolari più avanti riportate sono una vera brodaia e null'altro. 
Il poeta popolare deve nascere nel popolo e pel popolo: dev'essere figlio del popolo, sposarsi alla stessa causa, educarsi e vivere in quell'ambiente per sentirne e svelare senza ostentazione i veri bisogni e portare in seno dalla natura quella scintilla di fuoco sacro che a Giove rubò Prometeo e che dicesi sentimento, cuore, genio, poesia. Ciascuno quindi a suo posto: a noi oggi solo spetta questo fecondo periodo di elaborazione con l' augurio che, auspice una novella era di progresso e di civiltà, sorga chi, avendo dell'arte l'intuizione più pura, senta ed esprima nella forma splendida d' uno stile maraviglioso gli effetti ed i bisogni, le gioie ed i dolori, l'ansie e le speranze del nostro popolo, sorga insomma il nostro vero e degno poeta popolare.

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Non ancora avevo ultimato questa scabrosa questione che pubblicavo alla spicciolata in forma d'una serie d'articoli sull'Aurora, (1) quando il Dialettologo, punto nell'amor proprio dal mio spassionato giudizio intorno alla sua opera demolitrice di poeta da strapazzo, i cui versi, come ebbe a dire Marziale d'un suo coetaneo, eran degni d'esser scribacchiati col carbone sulle mura delle taverne, mi scaraventò alle calcagna un torrente d' insolenze. 
La noncuranza se non il disprezzo del pubblico intelligente che sempre se l'ha riso sotto i baffi, tutte le volte che qualche mostruosità poetica di costui andava in giro, ed il mio dignitoso silenzio furono allora la risposta più eloquente al Post fata resurgo
Ma ora che ho raccolto in uno le sparse membra di questo lavoro, la cosa cambia aspetto ed io sento il dovere di spendere senz'acredine qualche parola in risposta al mio bilioso dialettologo che ha il torto marcio d'averne voluto fare una bella e buona questione personale. 
In verità credevo che, elevata la questione nel campo sereno dell'arte ed esaminate le generose prove di eccellenti scrittori, il mio poco cortese amico col bagaglio delle sue composizioncelle avesse dovuto far vela per miglior acqua. 
Questi invece di ritirarsi nel proprio guscio, come pur troppo con l'andar del tempo ha dovuto fare, allora buttò giù la maschera ed in quella pappolata ch'è il Post fata, sbraita a squarcia gola credendosi quasi che io abbia voluto usurpargli il dritto e la privativa di cultore del nostro idioma. Inde irae. 
Sorvolando sulle ire, su quelle basse insinuazioni degne solo d'un animo volgare, è utile vedere come col Post fata il dialettologo tutto sommato non ha fatto altro che celebrarsi la propria apologia e, strano a dirsi, confermare il mio giudizio. 
Nel Post fata in vero in vece di scagionarsi dai miei giusti apprezzamenti sulle sue composizioni tutt'altro che poetiche, l'autore ad ogni piè sospinto scrive; io vivo in occupazioni, le quali poco tempo libero in verità mi concedono (pag. 3): finora ho pubblicato poche composizioncelle (pag. 4); ho un gran criterio oggettivo: parlerò a modo mio in un altro lavoro della confusione creata dal mio critico tra folk-lore e dialetto (id) ho gran desiderio di veder rifiorire la nostra letteratura dialettale (p. 5): lo spirito del popolo foggiano mi pare si possa notare benissimo nella mia produzione (p. 11); il mio nome è nell'elenco dei membri della Rivista del De Gubernatis (p. 15): il De Gubernatis mi scrive: il folk­lore di Foggia si piacerà assai che venga raccolto da lei (p. 14): i miei lavorucci hanno veramente meritato elogi di persone competenti (16) e cosi di seguito. Anzi a misura che gli si accende l'estro determina leggi fonetiche (p. 18 nota) estetiche (p. 20) e su qualche punto non la sente (scusate, s'é poco) come il d' Ovidio, l'Ascoli ed il Morandi (p. 48 nota). 
Mettendo da banda certa confusione che il dialettologo solo asserisce aver io fatto tra folk-lore e dialetto, ed il desiderio espresso dal De Gubernatis col quale non essendovi stato alcun altro in relazione, non fa meraviglia se a lui si sia rivolto ma non certo per avere il nostro folk-lore in versi, come egli scrive a pag. 14, a me pare il Dialettologo, sventurato Issione, in cambio di abbracciarsi Giunone, si stringa una nube. Primieramente nell'opuscolo in parola salta presto agli occhi una certa incoerenza, perchè a tacer d'altro mentre l'autore ad ogni pié sospinto scrive: io dico, io penso, io credo, io sono, inciampa poi in « un cercherò intanto di procedere alla difesa degli appassionati attacchi mossimi non certo con la vastità di erudizione che dimostra di aver lui, il mio poco garbato avversario, ma sicuramente « con maggior criterio oggettivo » (p. 4). 
Grazioso codesto criterio oggettivo in tanto soggettivismo. Ma, se il dialettologo si mostra un tantino deboluccio nel ragionamento, dovrà certamente avere qualche valore in arte. In arte la sua dichiarazione è molto esplicita; ei non è nè più nè meno che un archico. « Mi fa meraviglia, egli scrive, che siffatte osservazioni mi si muovano in tempi di anarchia non solo in politica ma anche ..... in letteratura (p. 20) ». Tombola! I suoi generosi tentativi non sono che degli attentati alla logica, all'arte ed alla grafia come proprio io avevo scritto nel N. 15 dell'Aurora, anno II. 
La ragione poi di tanta anarchia devesi solo ricercare nel diletto che egli prova di essere un pò libero e bizzarro (p. 20). Ammesso dunque l'anarchia in arte, l'ordine delle cose si capovolge e l' anarchico per mero diletto in cambio di ricostruire, rintracciare e racimolare nel popolo i ruderi d'una poesia che non è più « io, dice, ho voluto accomodarmi una volta tanto ad una certa maniera di verseggiare del popolo (p. 20) ». Il popolo dunque ha una metrica speciale, metrica che è agli antipodi colle regole che l'arte ci suggerisce. Oh, se tanto sapesse Messer Dante, son certo, non esiterebbe un solo istante a ficcarvi il nostro anarchico pericoloso io una buca ardente, con la testa all'ingiù ed i piedi all' insú come gli eresiarchi. 
Volando poi dall'arte al sentimento, la cui assoluta mancanza nei suoi primi generosi tentativi non potetti far a meno di notare, il dialettologo con intrepidezza e coraggio si permette d'affermare che nella poesia popolare non é a parlare di sentimento, perchè in lavori scritti pel popolo, il popolo si contenta bene spesso della sintesi (pag. 32); ma ben presto si affretta a contraddirsi aggiungendo;  ed intuisce per sentimento quello che noi affermiamo dopo accurata analisi. Sicché nei suoi lavori sintetici basta un solo aggettivo accanto ad un nome, come il povre vicino a ciucrejare (id.), per dire un mondo di cose, perchè il soperchio penetrare in un fatto, gli pare, slimiti i confini che l'arte suggerisce (id.). O magnanima ombra del Parsanese, l'anarchico vorrebbe financo demolire l'eterno monumento dei tuoi Canti, riboccanti nobilamente ed artisticamente d'affetti e sentimenti gentili e dedicati;  e tutta questa rovina per il solo gusto di esser un pò libero e bizzarro! 
Ed ora dall'arte alla fonologia. Non é mio intento dettar regole fonologiche pescate qua e là e citate a proposito ed a sproposito, nè mi son mai sognato di pretendere proprio da lui un trattato di fonologia, ma poiché egli ce ne dà le primizie nel Post fata, ragion vuole che io anche qui faccia un tantino di sosta. Una delle regole ch'egli fissa e ch' è come il preludio sinfonico del lungo trattato di fonologia e morfologia in preparazione, è la seguente: i gruppi pià, piè, piò, più, si commutano in chià, chiè, chiò, chiù e non viceversa (p. 28). 
Per stabilire questa regola, egli, dotato di pazienza benedettina ha dovuto superare tutte quelle gravi difficoltà, di cui parla a pagina 18 nella nota. Oh, il nostro anarchico s'è lasciato sorprendere, perché se pià, piè ecc. diventano chià, chiè ecc. il volgo invece di piacere dovrebbe dire chiacere e lo stesso dicasi di piatanza, lampiunaro, lampione, malpione, struppiato, pio nono, piaciuto, doppio, lampijeia, cupijeia, guappianno e via di seguito. Ma questo non basta: come va che in dialetto qualche vocabolo ha l'una e l'altra forma con evidente differenza di significato? Altro per fermo indica piatto ed altro chiatto; altro 'mpiastro ed altro nchiastro. Se il dialettologo s'è trovato innanzi a dei punti interrogativi, quando ha scoverta la legge fonica dell' a che e nel nostro dialetto ha lo stesso suono dell' eu francese, qui, proprio qui, nessun punto interrogativo gli s'è venuto a piantare dinanzi?  Oh non è questo il caso di vedere se una semplice stanghetta valga un de, o se l'apostrofo, messo per dimostrare la mancanza d'una vocale, valga più dello soppressione d'una mezza dozzina di vocali o di consonanti,  perchè si riesca a compilare un endecasillabo: nel primo caso ritornerebbero in vigore i geroglifici egiziani, nel secondo faremmo un brutto tiro all'anarchia del dialettologo,  che alle volte non rispetta neppure la grammatica, regalandoci un si può dirsi, (p. 7) e un a me mi pare (p. 17). Data quest'anarchia in logica, in arte, in fonologia e fin nella grammatica è giusto far osservare al Dialettologo che qualche vocale o sillaba di più non solo c'è nel « pò si gaviz' a l'auto jurno », ma anche in non pochi altri versi da me raccolti e pubblicati, non miei però, perchè io non ho la velleità di poetare e tradurre in dialetto; e che l'apostrofo nella nostra grafia è più in uso dell' e muta, ingegnoso comodino per toglierci da ogni perplessità. E riassumendo, se nella questione dialettale mi occupai un pochino delle produzioni del dialettologo fu perchè era mio intento dare uno sguardo generale su quanto a proposito s'era fatto e detto finora da noi e non già per studiare e tanto meno criticare i volumi delle sue composizioni, che ben altro mi frullava in testa. E come in questa disanima serena ebbi parole di lode per altri, così non potetti far a meno di biasimare l'opera sua, dalla quale piuttosto danno che vantaggio ne avrebbero ricavati i nostri studi dialettali, ond' è che lo consigliai a solo raccogliere parole, frasi, motti, fiabe e canti che ogni dì suonano sulle labbra del popolo ed a precisarne il significato ed il valore. 
Per la qual cosa a voler esser chiaro, se da una parte nei lavori del dialettologo a prima giunta salta su negli occhi la deficienza d'ogni nesso logico e d'ogni principio estetico, dall'altra appare la nessuna attitudine dell'autore che a forza di aggiungere capricciosamente parola a parola, frase a frase, proverbio a proverbio, ora sopprimendo ed ora profondendo una mezza dozzina di vocali o consonanti, come meglio gli talenta, verseggia, traduce, dialogheggia, detta regole fonologiche, morfologiche e grafiche. 
Ed in fine, se la questione dialettale non fosse uscita dalla palude, in cui ad ogni costo un tempo volea confinarla il Dialettologo per abbandonarsi ai suoi capricci ed alle sue bizzarrie, era impossibile poter conoscere qual tesoro di lingua e di letteratura possedeva il nostro popolo, tutt'altro che privo di fecondi e nobili ispirazioni. 
Giù adunque ogni pettegolezzo ed ogni egoismo e tutti concordi e sereni alacremente accingiamoci ad uno studio proficuo a noi stessi, al nostro paese natio ed alla comune madre, la Gran Patria Italiana.

(1) Rivista quindicinale letteraria, Anno II, n. 15, 16, 17.

Giuseppe Lo Campo "Foggia e la questione dialettale"
Tipografia Michele Pistocchi, Foggia 1897